Cosa c’è (davvero) dietro le crisi di Credit Suisse e Svb. Parla Angeloni

Formiche –
Intervista di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

Intervista all’economista ed ex membro del Comitato esecutivo della Bce. Dal 2008 ad oggi ci è stato detto che le banche dovevano poter fallire, ma l’intervento parastatale sull’istituto svizzero è un’ammissione di fallimento. Svb è saltata perché non ha retto al rialzo dei tassi, dopo anni di espansione monetaria. Lagarde? Fa bene a tirare dritto

Guai a mettere tutto nel frullatore. Come a dire, a porre sullo stesso piano lo scampato crack del Credit Suisse con idefault, quello sì, della Silicon Valley Bank. Non sono la stessa cosa, anche se la patologia può essere molto comune. Ignazio Angeloni, economista di lungo corso e docente presso il Robert Schuman Center of the European University Institute in Florence, è stato per anni membro del Comitato esecutivo della Bce. Per questo, quando gli si chiede un parere sulle recenti crisi bancarie che hanno scosso non poco i mercati, facendo rivivere per un momento ai risparmiatori lo spettro di Lehman Brothers, sa di cosa si parla.

Prima Svb, poi Credit Suisse, passando per First Republic. Due crack e un salvataggio per i capelli. Che cosa sta succedendo nelle banche? Ed è davvero colpa di un rialzo mal gestito dei tassi, come nel caso della stessa Svb?

Sono situazioni diverse, che hanno cause diverse. La cosa che le accomuna è il contagio, quella malattia infettiva delle banche che fa si che l’incertezza su una si trasmetta anche alle altre.

Ci spieghi.

La crisi degli istituti americani è il risultato dell’onda lunga della grande espansione monetaria. La fase di aumento della liquidità bancaria verificatosi dal 2008 ha incoraggiato ad assumere maggiori rischi, senza pensare troppo a cosa sarebbe successo in futuro. Ed è anche il risultato della deregolamentazione bancaria decisa dall’amministrazione Trump, che ha fatto si che le banche al di sotto di 250 miliardi di dollari di attivo non fossero più vigilate e sottoposte agli stress test a livello federale. Ora, quando l’espansione monetaria del periodo pandemico ha fatto crescere i loro depositi a dismisura, queste banche si sono imbottite di titoli di Stato a lungo termine, ritenendoli (non senza ragione) strumenti sicuri che rendevano qualcosa (i tassi a breve erano a zero negli Usa). Il rialzo successivo dei tassi le ha costrette a vendere quei titoli in perdita. In questo caso, se mi passa un paragone, incolpare il rialzo dei tassi è come attribuire alla disintossicazione la causa del decesso di un tossicodipendente.

Mentre invece nel caso europeo, che cosa c’è di diverso?

La crisi di Credit Suisse è diversa, lì davvero la banca ha grosse responsabilità: anni di gestione opaca e imprudente, al confine e oltre le regole, insieme alla vigilanza. Il caso Credit Suisse è più grave non solo perché rischiava di avere conseguenze in Europa a causa della dimensione e dei collegamenti di quella banca col sistema europeo (si tratta di una banca globalmente sistemica secondo le classificazioni internazionali), ma perché segnala che la riforma del sistema finanziario globale attuata dopo la grande crisi del 2008 non ha funzionato.

Qualcuno non ha imparato la lezione, pare di capire…

Allora si disse che non dovevano esserci più salvataggi a spese del contribuente, che le banche andavano messe in condizione di poter fallire, ovvero andare in risoluzione, senza danneggiare le altre, eccetera. Dopo quindici anni le autorità svizzere hanno invece decretato che Credit Suisse andava salvata, che non poteva andare in risoluzione senza creare uno scompiglio sistemico. Una grave ammissione di fallimento, che riguarda gli svizzeri ma anche tutto il sistema globale dei controlli bancari.

L’operazione Credit Suisse-Ubs ha un po’ il sapore del mercato, un po’ quella del salvataggio per mano di Stato. Che lezione possiamo imparare?

Si tratta di un salvataggio nel senso che le autorità sono intervenute con energia pilotando l’intervento di Ubs e determinando condizioni favorevoli per l’acquirente. Lo dimostra l’entusiasmo di borsa per Ubs dopo l’operazione. Le autorità hanno addirittura rovesciato l’ordine naturale del bail in, bruciando i creditori subordinati prima degli azionisti. D’altra parte, questi ultimi non sono stati neppure consultati, quindi andavano compensati in qualche modo. La lezione l’hanno data le autorità europee nel loro comunicato stampa, in cui ribadiscono la corretta gerarchia dei creditori: prima gli azionisti, poi i detentori di titoli subordinate (AT1), poi gli altri creditori, infine i depositanti.

Guardiamo a Francoforte, visto che parliamo di autorità. La Bce ha fatto ben intendere che un rallentamento sui tassi non è all’ordine del giorno, nonostante i citati guai bancari. Condivide?

Si, condivido. Penso che nell’ultima riunione la presidente Lararde si sia espressa bene, riscattando alcune comunicazioni infelici precedenti. Ha detto che la politica monetaria e la politica della stabilità finanziaria hanno obiettivi e strumenti diversi, e che la Bce agirà con decisione in entrambi i sensi. Così deve essere, salvo in condizioni di crisi conclamata, condizioni in cui oggi non ci troviamo. La Bce ha quindi proceduto con l’aumento dei tassi a breve, che rimangono comunque negativi al netto dell’inflazione, evitando però di impegnarsi sui movimenti successivi.

I mercati non sembrano aver reagito troppo male, in effetti…

Ho l’impressione questo messaggio sia stato compreso e condiviso. Dopo l’ultima riunione Bce, abbiamo assistito a una distensione sui mercati, soprattutto quello dei titoli pubblici.

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Perché Lagarde è sotto tiro in Europa. La versione di Angeloni

Formiche –
Intervista di Gianluca Zapponini

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Di Gianluca Zapponini

Non è tempo di processi e nemmeno di sentenze. Christine Lagarde, certo, ha i suoi torti. Ma non per questo sulla gestione del costo del denaro ha sbagliato tuttoIgnazio Angeloni, economista di lungo corso e docente presso la Robert Schuman Center of the European University Institute in Florence, il Comitato esecutivo della Bce lo conosce bene, visto che vi ha fatto parte per diversi anni.

E per questo quando gli si chiede un parere sulla spaccatura, nemmeno troppo superficiale, tra i falchi e le colombe, nelle persone di Isabel Schnabel per i primi e di Fabio Panetta per i secondi, non si scalda più di tanto.

La presidente della Bce Lagarde sembra voler perseverare nella sua politica a base di rialzi dei tassi. Ignorando, forse, che l’inflazione in Ue è in ripiegamento e che è figlia di strozzature imputabili, anche, al conflitto in Ucraina. E che quei barlumi di crescita cui stiamo assistendo potrebbero uscirne penalizzati. Non le sembra che la Bce abbia perso il contatto con la realtà delle cose?

Non credo si debba definirla la sua politica. Penso piuttosto che Lagarde cerchi di conciliare le diverse posizioni che esistono all’interno del Consiglio che presiede. Le quali, in alcuni casi, riflettono specifiche situazioni, esigenze e preferenze nazionali. Riguardo alla politica dei tassi, a me sembra che le mosse della Bce negli ultimi tempi mirino a riportare i tassi di interesse a breve reali – cioè al netto dell’inflazione – su un livello equilibrato, superiore allo zero anche se di poco. La situazione degli ultimi tempi in cui essi sono stati fortemente negativi era anomala e giustificata da condizioni eccezionali: prima i rischi deflazionistici, poi la pandemia. La situazione economica dell’eurozona oggi consente e richiede questa strategia di riequilibrio.

E questo ragionamento vale anche per un’inflazione riconducibile a fattori slegati dalla domanda?

Alcuni sostengono che la politica monetaria non dovrebbe agire perché la fiammata inflazionistica ha tratto origine dal lato dell’offerta. Ma è una tesi sbagliata. Per tenere sotto controllo l’inflazione, la domanda va regolata anche in funzione di ciò che accade all’offerta. E poi, comunque, i dati sui prezzi energetici, in calo ovunque, e sulle strozzature nelle catene produttive mostrano che anche la situazione dell’offerta si va gradualmente normalizzando.

La presa di posizione di Panetta e, a stretto giro quella di segno opposto, di Schnabel, danno la cifra di una crescente frattura in seno alla Bce. Lagarde dovrà tenerne conto, alla fine. Oppure no?

Sicuramente la presidente terrà conto delle diverse posizioni nel Consiglio. Penso anzi che lo sta già facendo. Recentemente vi è stata un po’ di incertezza dal lato della comunicazione, soprattutto a causa di certe enfatizzazioni eccessive fatte durante le conferenze stampa. Ritengo che il problema possa essere superato già a partire dalle prossime riunioni del Consiglio. A parte questo aspetto, a me sembra che la linea seguita dalla Bce negli ultimi tempi in materia di tassi di interesse sia sostanzialmente corretta.

Abbiamo più volte sentito dire come la Bce si sia mossa con colpevole ritardo rispetto alla Fed, che già dalla scorsa primavera era entrata in azione. Condivide questa lettura?

Penso anche io che la Bce si sia mossa con ritardo nello scorcio del 2021 e agli inizi del 2022, nel non recepire tempestivamente la presenza e la portata delle pressioni inflazionistiche che iniziavano a manifestarsi. Allora la politica monetaria era sbilanciata in senso espansivo e andava riequilibrata, anche per evitare che l’inversione risultasse troppo rapida e intensa in un momento successivo. Ma questa è acqua passata, ora si guarda avanti.

Fed e Bce proseguiranno in un unico solco, quindi?

Il paragone fra Fed e Bce è difficile, perché le situazioni sono diverse – tanto per cominciare, l’indice dei prezzi di riferimento è diverso. A grandi linee va comunque rilevato che il tasso di interesse controllato della Fed in questo momento è del 4,5-4,75%, con un’inflazione al 6.4% (gennaio). Nonostante ciò il presidente Powell ha detto che c’è ancora del lavoro da fare, cioè, ulteriori aumenti dei tassi. Da noi i dati corrispondenti sono 2,5% e 8,5%. Lagarde nell’ultima conferenza stampa ha detto che c’è del terreno da percorrere. Parole differenti, ma la sostanza è la stessa.

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Ora l’Italia abbracci il Mes. Ignazio Angeloni spiega le ragioni del sì

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Intervista di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

Intervista all’economista ed ex membro del consiglio di sorveglianza della Bce. Al netto dell’isolamento che dopo il sì tedesco rischia di diventare imbarazzante, una ratifica del Trattato che riforma il Meccanismo europeo di stabilità comporterebbe una certificazione di sana e robusta costituzione dei conti pubblici italiani. Il premier è stato responsabile, lo dimostri ancora una volta. Anche perché la sovranità finanziaria non sarebbe in discussione

Sì, l’Italia presto potrebbe ritrovarsi isolata in Europa nello scacchiere del Mes, al secolo Fondo salva Stati. Ma Giorgia Meloni, che fin qui si è dimostrata lungimirante più di quanto si imaginasse, può ancora tirare fuori dal cilindro la mossa che proietterebbe il primo premier donna della storia italiana nel cuore dell’Europa.

Berlino ratificherà il Mes, è questione di settimane, a valle della decisione della Corte costituzionale tedesca che ha dichiarato inammissibile un ricorso che contestava gli atti nazionali di approvazione dell’accordo del 27 gennaio 2021, che modifica il Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Per questo, spiega a Formiche.net Ignazio Angeloni, economista presso il Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce, Roma dovrebbe prendersi del tempo e alla fine allinearsi al resto d’Europa.

Con il sì della Germania al Mes l’Italia è rimasta nei fatti pressoché isolata. 

Era prevedibile che avvenisse. In genere, la Germania si muove lentamente ma senza arrestarsi: alla fine la decisione arriva quando gli altri non se lo aspettano. La ratifica della riforma dipende dalla firma del presidente, Frank-Walter Steinmeier, ma dopo la luce verde della Corte costituzionale dovrebbe trattarsi di un fatto formale e probabilmente rapido. A quel punto l’Italia sarà l’unico paese a bloccare l’adozione della riforma del Mes, e con essa le nuove modalità di assistenza finanziaria agli Stati e il sostegno di ultima istanza, il backstop, al fondo di risoluzione bancaria europea. Una situazione che può creare imbarazzo e richiedere qualche spiegazione in più sul perché la ratifica non sia ancora avvenuta.

Al governo però c’è Giorgia Meloni. Quali scenari aspettarsi, anche alla luce del governo attuale?

Difficile prevederlo. Per quanto riguarda l’assistenza agli Stati, l’aspetto che a me sembra più importante, una volta capito che le nuove modalità non comportano maggiori rischi di insolvenza, è che con la riforma non verrà più richiesto al Paese che ottiene una garanzia precauzionale, la precautionary line, di firmare un impegno con il Mes, sotto forma di Memorandum of understanding. La procedura di ottenimento diventa più informale, si tratta di una certificazione dello stato di salute del Paese e della sua finanza pubblica che il Mes può emettere senza richiedere documenti di impegno formalizzati.

Dunque?

Si apre quindi un’opportunità per questo governo: procedere alla ratifica e simultaneamente ottenere le certificazione. Con il Patto di stabilità ancora sospeso e assumendo che la legge di Bilancio vada in porto con il sostanziale assenso della Commissione Europea, quest’ultima dovrebbe essere ottenibile. La garanzia precauzionale del Mes apre la strada all’Outright Monetary Transaction della Bce: il cosiddetto bazooka anti spread varato da Mario Draghi nel 2012. Strumento più solido del Transmission Protection Instrument introdotto dalla presidente della Bce Lagarde a luglio.

La provoco. In un frangente post pandemico in cui il Patto di stabilità è ancora formalmente sospeso, quali i rischi per la nostra sovranità finanziaria, ammesso che ce ne siano, da una ratifica del Mes?

La sovranità finanziaria di un Paese come il nostro non si decreta: si conquista con una politica economica e finanziaria responsabile, che convinca gli investitori e, dietro a essi, le istituzioni europee a cui apparteniamo e che, anche nel nostro interesse, esercitano la vigilanza sulla stabilità dell’euro. Questo governo aveva suscitato qualche dubbio al tempo delle elezioni, ma la linea responsabile tenuta dalla presidente Meloni finora sembra avere attenuato quelle incertezze. Lo spread sui titoli italiani da settembre a oggi è gradualmente sceso. Un progresso importante ma ancora fragile. Una certificazione del Mes metterebbe quei risultati al sicuro e e ne garantirebbe altri. Per questo governo sarebbe un colpo da maestro.

E per quanto riguarda risoluzione bancaria?

In cauda venenum. Nel documento della Corte, in un paragrafo finale quasi invisibile, si dice che la Bce non potrà fare credito al Mes perché si tratterebbe di finanziamento monetario agli stati. Le conseguenze giuridiche di quella decisione vanno valutate, ma è possibile che essa impedisca alla banca centrale di fornire liquidità al fondo di risoluzione, che dopo la riforma sarà collegato al Mes. Bloccando così uno strumento che il Meccanismo di risoluzione unico aveva richiesto e che la stessa Bce ad alcune condizioni era disposta a concedere. In linea teorica non è un male: anche negli Usa il fondo di risoluzione (Orderly Liquidation Fund) è alimentato della Fdic, che si indebita con il Tesoro, non dalla Riserva Federale. Ma in Europa l’assenza di una funzione fiscale unica rende tutto più difficile. Andrà trovata una via alternativa per facilitare la risoluzione bancaria senza scontrarsi con i divieti del Trattato.

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Mps è salva. Ma resta un dubbio sull’operazione Siena

Formiche
Di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

La ricapitalizzazione da 2,5 miliardi messa in cantiere da Draghi e portata a termine dal governo Meloni è stata coperta per il 96,3%, grazie agli 1,6 miliardi garantiti dal Tesoro azionista e al ruolo delle Fondazioni, intervenute su espressa richiesta di Via XX Settembre. L’economista ed ex Bce Angeloni a Formiche.net: la banca resta sostenuta dallo Stato e questo rende il risanamento più difficile. Ora speriamo che i margini impediscano nuovi esborsi

Ora che la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi è andata in porto (l’aumento è stato coperto al 96,3%, con le otto banche del consorzio di garanzia e il fondo Algebris che dovranno accollarsi azioni residue per un controvalore di poco più di 93 milioni di euro), la domanda che sorge quasi spontanea è: e adesso? La risposta è più o meno questa.

Adesso il piano industriale messo a punto, lo scorso febbraio, dal ceo di Mps, Luigi Lovaglio, può finalmente passare alla fase operativa. E il primo mattoncino, se così lo si può chiamare, sono le oltre 4 mila uscite volontarie da Rocca Salimbeni, il cui costo si aggira su per giù intorno al miliardo. Praticamente l’ammontare della quota di aumento garantita dagli investitori privati: fondi, fondazioni, piccole banche. Ma c’è forse una domanda da porsi, ora che il pericolo di finire a gambe all’aria è scampato.

E cioè, premesso che il salvataggio di Mps ha poggiato essenzialmente su due gambe, la prima quella dello Stato azionista e padrone (64%) di Siena, che ha staccato un assegno da 1,6 miliardi di soldi pubblici mentre la seconda è quella delle fondazioni bancarie, chiamate a raccolta dallo stesso Tesoro su input di Mario Draghi (in raccordo con Giorgia Meloni, fin dall’estate scorsa), non è che alla fine l’intero peso della ricapitalizzazione andrà a scaricarsi sul patrimonio (privato) delle stesse fondazioni e magari sui contribuenti italiani?

Attenzione, perché il film potrebbe essere già visto. Cinque anni fa, lo Stato per mano del Tesoro (c’era Paolo Gentiloni al governo), entrò in forze e con tutti e due i piedi dentro Rocca Salimbeni, sborsando 5,4 miliardi di euro a titolo di ricapitalizzazione precauzionale. Fu, nella realtà, una nazionalizzazione, approvata persino dall’Europa, resasi necessaria per salvare ancora una volta la banca più antica del mondo, affossata, tra le altre cose, dai contratti speculativi Santorini e Alexandria.

Insomma, come stanno davvero le cose? Formiche.net ha chiesto il parere di Ignazio Angeloni, economista presso la Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce. Che pur riconoscendo il valore e l’opportunità dell’operazione, non manca di fare alcuni appunti. “Arrivati a questo punto penso sia giusto fare i complimenti all’amministratore delegato, che ha condotto in porto con determinazione un’operazione non facile, e gli auguri al Paese, che essa abbia successo nel lungo termine”.

Tuttavia, “personalmente avrei preferito un’operazione più incisiva nei costi, nel capitale e nel business plan, e con un coinvolgimento privato fin da subito anche nel risanamento. Invece la banca resta sostenuta dallo Stato, e in queste condizioni il lavoro che resta da fare sarà più difficile. In prospettiva, l’aumento dei margini di intermediazione aiuterà. Speriamo che basti”.

Pochi giorni fa, sul GiornaleNicola Porrocommentando il salvataggio di Siena, ha puntato il dito contro quello che si profila essere l’ennesimo salasso per i contribuenti. i contribuenti italiani. Che “in quattordici anni hanno fatto sei aumenti di capitale, per un totale di 25 miliardi bruciati a Siena. Peggio di Alitalia. Ma come in quest’ultimo caso, il Tesoro non ha voluto vedere la realtà. Forse era meglio accettare le proposte di Bpm e Bper di vendere loro gli sportelli (con la possibile aggiunta del Mediocredito per le filiali del centro). E il Tesoro invece di avere in mano un pugno di mosche e pagare commissioni favolose alle banche internazionali, oggi sarebbe azionista di banche sane e regionali”.

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Meloni sia prudente sui conti e i mercati le crederanno. Parla Angeloni

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Intervista di Gianluca Zapponini

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Di Gianluca Zapponini

Non è vero che la politica monetaria espansiva è defunta, i tassi al netto dell’inflazione sono ancora negativi. Il nuovo governo usi i guanti su deficit e debito e lo spread si raffredderà. Il Pnrr? Piccoli ritocchi si possono fare ma l’impianto rimane valido. Intervista ad Ignazio Angeloni, economista presso la Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce.

Palla a Giorgia Meloni. L’eredità di Mario Draghi non è di quelle tascabili, magari da riporre in un cassetto. C’è un percorso per la riduzione del debito avviato, una credibilità sui mercati riconquistata e un’inflazione, almeno in parte, governata. Non è poco e nei giorni in cui lo spread Btp è tornato a correre, con i rendimenti sul titolo decennale al 4,8%, è lecito domandarsi come non buttare a mare quasi due anni di governo Draghi.

Per Ignazio Angeloni, economista presso la Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce, i tempi avvenire non saranno facili. Occorre essere lucidi e, soprattutto, non scambiare fischi per fiaschi quando si parla di tassi.

C’è una congiuntura finanziaria che potrebbe rivelarsi poco favorevole per l’Italia. Da una parte la fine della politica accomodante da parte della Bce, con la prospettiva di nuove strette monetarie. Dall’altro un rendimento sui titoli italiani (ma anche su quelli esteri) che da aprile ad oggi è salito sensibilmente. Andiamo verso una stagione difficile o è solo un colpo di vento?

La congiuntura economica e finanziaria che si prepara è poco favorevole per tutti. E durerà. Il ciclo economico cambia soprattutto per fattori a livello globale: la parziale ritirata della globalizzazione, i beni di base che costano di più, i timori sulla guerra e le loro ripercussioni sulla sicurezza e sul benessere di tutti noi. Tutto questo porta cautela nella spesa delle persone e nei programmi di investimento delle imprese. Ci sono poi gli effetti del cambiamento delle politiche monetarie, anche qui a livello globale.

Ovvero?

Le banche centrali hanno sottostimato l’inflazione inizialmente, ora si muovono anche nel timore di perdere le loro credenziali antinflazionistiche. Il mercato teme che esse esagerino nel senso opposto, stringendo troppo quando ci sono rischi di recessione. Ma è un timore infondato. Il dibattito in corso sulla politica monetaria, non solo in Italia, perde di vista la cosa più importante.

Quale sarebbe?

La politica monetaria, in Europa e anche altrove, è ancora estremamente espansiva. Per capirlo basta guardare i tassi di interesse al netto dell’inflazione, largamente negativi e le grandezze aggregate della moneta e del credito. Lo stratosferico aumento di esse che si è andato accumulando dalla crisi finanziaria del 2007-08 a oggi è ancora tutto lì, in alcuni casi esse stanno ancora aumentando. Una massa enorme di liquidità e di debito in rapporto alla dimensione delle economie che costituisce il vero potenziale inflazionistico di cui ora cominciamo a vedere gli effetti.

Angeloni, per tanti anni abbiamo visto una crescita monetaria senza inflazione, non crede che possa essere così anche in futuro?

Se permette le faccio un paragone. Lei oggi lascia aperta la porta di casa sua. Questo vuol dire che stanotte entreranno i ladri? Non necessariamente. Forse che una porta aperta invoglia a rubare? Non tutti. Ma stia certo che se lei la lascia aperta per un poco di tempo, qualcosa del genere prima o poi succederà. L’eccesso di moneta non causa l’inflazione, la permette. L’inflazione può partire per tante altre ragioni, se la porta è stata lasciata aperta.

Il nuovo governo, con ogni probabilità a guida Meloni, si insedierà in un contesto fluido con, come detto poc’anzi, i primi cenni di nervosismo da parte dei mercati. Come garantire fiducia e credibilità a chi finanzia il nostro debito?

Mi auguro che il nuovo governo sia molto prudente nel gestire la finanza pubblica, evitando scostamenti dal tendenziale calo del debito pubblico in rapporto al Pil programmato dal governo attuale. Semmai, direi, accelerando quella riduzione, approfittando del buon andamento degli introiti fiscali. Meloni in campagna elettorale ha dato segnali incoraggianti in questo senso, in parziale contrasto con gli alleati della coalizione. Il successo elettorale le dà ora a forza di farsi valere. Se questo succede, gli aumenti dello spread avvenuti a partire dal venerdì pre-elettorale si riveleranno ingiustificati e rientreranno.

Roma e l’Europa. Il Pnrr non è in discussione, almeno nella sua natura. Ma il nuovo governo potrebbe chiedere dei ritocchi. Se ne può parlare con Bruxelles o è un rischio da non correre?

Se ne può parlare, naturalmente. La Commissione non si opporrà a eventuali modifiche al margine se ben motivate. Ma non si tratta di una questione importante.

Perché?

Perché l’impianto di fondo del Pnrr rimane valido. I principali nodi che il Paese deve risolvere, non da oggi ma da molti decenni, sono ben individuati nei principali capitoli del piano e nelle sue linee di intervento. Sono quelle le cause del declino italiano, su cui concentrare investimenti e riforme. Il passaggio dalla fase di pandemia, nella quale il piano fu definito, a oggi, con la guerra in Europa e la crisi energetica, modifica quel quadro solo in piccola parte. Non servono quindi grandi cambiamenti, semmai qualche aggiustamento da definire attraverso un dialogo pacato e costruttivo con la Commissione.

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La Bce ha perso tempo, ma a luglio… Ecco cosa prevede Angeloni

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Intervista di Gianluca Zapponini

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Di Gianluca Zapponini

Le parole sono importanti. Soprattutto quando si parla di politica monetaria. Se davvero la Banca centrale europea il prossimo 21 luglio, giorno della riunione del board, darà la sua prima stretta post-pandemica, dopo anni di politica ultra-accomodante, ebbene non si tratterà davvero di una stretta. Molto meglio, dice a Formiche.net Ignazio Angeloni – economista alla Harvard Kennedy School e, non un dettaglio, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce – parlare di rallentamento della fase espansiva.

Prima l’ex commissario Olli Rehn, poi i governatori Nagel e Knot. Sembra essere sempre più probabile un primo vero tightening da parte della Banca centrale europea. Il finale è dunque già scritto?

Non è una stretta, è un allentamento dell’espansione monetaria. Anche se il tasso-chiave della Bce dovesse salire a luglio di mezzo punto, come si sente ventilare in questi giorni, l’intonazione della politica monetaria in Europa resterebbe espansiva.

Mettendola in questo modo allora, come si confronta la Bce con quello che sta facendo la Fed negli Usa?

La Fed si sta portando verso una posizione equilibrata: né espansione né, per il momento, restrizione. Poi si vedrà. Il presidente Powell ha promesso un atterraggio morbido verso la stabilità dei prezzi, senza recessione. Il che gli impone di muovere rapidamente verso una posizione monetaria neutrale, senza poi stringere troppo ulteriormente. È l’impegno più importante e difficile che ha preso nella sua carriera. Dall’esito dipende quello che i libri di storia scriveranno di lui.

Angeloni, torniamo al mese di luglio. Se rallentamento sarà, avverrà a diversi mesi dall’intervento della Fed. Giudica questo lasso di tempo ragionevole e condivisibile o la Bce avrebbe dovuto agire prima?

Il punto non è essere avanti o indietro rispetto alla Fed, ma un altro. Nella seconda parte del 2021 la Bce ha perso l’occasione propizia per aggiustare la politica monetaria in senso meno espansivo, col minimo rischio. In quel momento la crescita europea era più forte del previsto, e già si capiva che le pressioni inflazionistiche erano più diffuse di quando il semplice aumento dei prezzi energetici comportasse.

E dunque?

Se si fosse mossa allora, la Bce avrebbe evitato di rimanere indietro, non tanto rispetto alla Fed, ma rispetto al proprio stesso ciclo monetario. Oggi, con la guerra e i venti di recessione che cominciano a spirare, la mossa è più difficile. Ma penso che la faranno lo stesso.

Rimane il grande problema, un’inflazione che in Europa viaggia su livelli mai così preoccupanti. C’è di mezzo la guerra e la crisi delle catene di approvvigionamento. Basterà una stretta monetaria a fermare l’inflazione o servirà un ritorno delle condizioni geopolitiche alla normalità?

Certamente non basterà questa mossa, che come abbiamo già visto stretta non è. Penso che l’inflazione europea abbia già una dinamica piuttosto radicata, insita nel fatto che alcuni beni non energetici – gli alimentari e anche alcuni servizi – crescono forte e trascinano dietro altri costi e prezzi. La Bce dovrà lavorare molto e bene per tenerla sotto controllo, e il lavoro non durerà poco.

Non è proprio una prospettiva felice…

Se i prezzi internazionali crollassero ai livelli precedenti, tutto sarebbe più facile, ma gli scenari attuali non fanno prevedere uno sviluppo di questo genere.

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Per Mps servono più sposi, uno non basta. La versione di Angeloni

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Intervista di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

Non è più tempo di sfogliare la margherita, sul Monte dei Paschi è l’ora di lavorare seriamente a una soluzione che possa portare presto lo Stato fuori dalla banca più antica del mondo. Terminata la giostra parlamentare per il Mattarella-bis, al Tesoro, azionista di controllo (64%), si è riaperto il cantiere senese, a quasi tre mesi dal fallimento delle trattative con Unicredit.

Il prossimo 7 febbraio, il ceo Guido Bastianini presenterà al mercato i conti del 2021 e c’è chi giura che si tratterà di una sorta di redde rationem, dopo le indiscrezioni circolate in questi giorni che vorrebbero il Mef propenso a un ricambio al vertice, a valle di un passo indietro dello stesso numero uno di Mps. La sostanza però, non cambia. Ribaltoni o meno lo Stato da Siena deve uscire, spiega a Formiche.net Ignazio Angeloni, economista alla Harvard Kennedy School, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce e da sempre in ottimi rapporti con Mario Draghi. 

Dopo il fallimento delle trattative con Unicredit, lo scorso novembre, lo Stato azionista è tornato al punto di partenza. Nell’attesa di una possibile-probabile proroga da parte dell’Europa, crede ancora nella bontà di un’operazione di sistema con più soggetti bancari coinvolti?

Non mi pare che la situazione sia cambiata molto da allora. Occorre lavorare per una soluzione concreta, sostenibile nel tempo, nella quale lo stato cessi quanto prima di essere azionista rilevante. Continuo a ritenere difficile che una singola banca italiana possa farsi carico da sola del problema Mps con buone probabilità di successo, a costo accettabile per lo Stato e senza mettere in pericolo se stessa, il che significa passare anche il vaglio della vigilanza Bce. C’è poi sempre la possibilità di una banca estera, ma al momento non mi sembrerebbe la soluzione ideale.

Allora c’è poca da fare, serve il coinvolgimento di più soggetti…

Rimane l’opzione di una joint venture, che però dovrebbe essere accompagnata da una ristrutturazione con concrete prospettive industriali. Il soggetto pubblico potrebbe cercare di promuovere una soluzione di questo genere, sopportandone una parte dei costi. Ma né esso, né il Fondo che assicura i depositi bancari in Italia, dovrebbero farsi carico di attuare il progetto industriale.

Angeloni, in questi giorni si è parlato molto di una possibile discontinuità al vertice di Mps. Poche settimane dopo il piano industriale e con una possibile privatizzazione in vista, è preferibile la continuità o il contrario? E non crede che un’operazione di questo calibro debba e possa basarsi sulla fiducia azionista-manager?

Su questo non ho un’opinione specifica. Non penso che le difficoltà di Mps dipendano dalla guida operativa e del resto la banca ha già avuto parecchi cambiamenti al vertice negli ultimi anni. Naturalmente, se si delineasse un’operazione privata, per esempio come quella a cui ho appena accennato, i nuovi azionisti deciderebbero anche la posizione di vertice. Come avviene sempre in questi casi.

Allarghiamo il discorso. Due anni di pandemia hanno cambiato parte della nostra economia e forse anche di certa finanza. Come ne esce il sistema bancario italiano che, almeno per ora, sembra aver retto all’urto?

Abbastanza bene, direi. Le banche maggiori, Intesa certamente, ma non solo, hanno fatto un percorso di risanamento e rafforzamento prevalentemente per linee interne che ha dato frutti e che continua. Si intravede anche una tendenza, opportuna, a sviluppare linee di attività complementari, come la gestione del risparmio e i prodotti assicurativi. La ripresa economica, poi, aiuta il rafforzamento del sistema bancario. L’aumento dei tassi di interesse che si è avviato aiuterà ulteriormente, consentendo di riaprire i margini di intermediazione.

Eppure le sfide non mancano…

La sfida che il sistema ha oggi di fronte riguarda la rimozione dei sostegni e delle garanzie legate all’emergenza Covid. Non credo che sia nell’interesse delle stesse banche, quelle più forti soprattutto, ritardare troppo l’uscita dai provvedimenti di salvaguardia. È meglio invece che essa inizi quanto prima, pur essendo attenta e graduale.

Capitolo politica monetaria. La Federal Reserve ha cambiato passo negli Usa e non certo oggi. Al contrario la Bce ostenta ancora calma sui tassi, nonostante un’inflazione piuttosto marcata che persino Francoforte ora non può ignorare. Come spiega questa tranquillità di fondo?

Penso che la Bce si ricrederà e aggiusterà il tiro. In parte questo si è già visto nella conferenza stampa di ieri della presidente Lagarde. Va superata la situazione, imposta dall’emergenza ma oggi non più necessaria né desiderabile, di tassi di interesse a breve termine sotto lo zero. A mio parere sarebbe più urgente che la Bce rialzasse i tassi, piuttosto che concludere prima il programma di acquisto di titoli.

E questa inversione di azioni, prima i tassi poi la fine degli stimoli, che benefici apporterebbe?

Tali acquisti possono anzi servire, temporaneamente, per attutire eventuali contraccolpi che l’aumento dei tassi potrebbe comportare. A mio parere la banca centrale dovrebbe riesaminare alla luce degli ultimi sviluppi la sua impostazione strategica complessiva, annunciata l’estate scorsa in condizioni assai diverse da quelle di oggi.

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La terza via per Siena. Angeloni spiega la soluzione italiana per Mps

Formiche
Intervista di Gianluca Zapponini

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Di Gianluca Zapponini

C’è sempre una carta da pescare nel mazzo, il problema è capire quale sia la migliore. Per il Monte dei Paschi, dopo la rottura non certo indolore delle trattative tra Unicredit e l’azionista Tesoro, si aprono diverse strade, alcune in salita e piene di curve, altre decisamente più percorribili. Ieri dalla bocca del dg del Mef, Alessandro Riverasono arrivate le prima indicazioni precise sul futuro di Siena: ricapitalizzazione a mezzo mercato (3 miliardi, almeno), pulizia dei bilanci e rimessa della banca sul mercato, previa concessione di una proroga sostanziosa dall’Europa.

Poi, occorrerà trovare la famosa soluzione industriale. E qui i nodi potrebbero venire al pettine. Lo Stato, come messo in chiaro dallo stesso Rivera, non può rimanere azionista del Monte. Allora potrebbe farsi avanti un altro soggetto, magari Banco Bpm, le cui spalle non sono tuttavia larghe come quelle di Unicredit. Ancora, si potrebbe coinvolgere una grande banca straniera, verosimilmente francese, come Bnp Paribas o l’Agricole. Difficile però pensare a un benestare del governo, soprattutto con Lega e Fratelli d’Italia parte della compagine. Vicolo cieco? No.

Ignazio Angeloni, economista alla Harvard Kennedy School, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce e gran conoscitore di Mario Draghi, nei giorni scorsi ha lanciato una sua proposta: un pool di banche italiane per rilevare la quota del Tesoro. Intervistato da Formiche.net, va oltre e spiega genesi e ratio di una soluzione dal sapore tutto sistemico.

Dopo la rottura tra Tesoro e Unicredit, il futuro di Mps appare quanto mai incerto. Lei ha proposto il coinvolgimento di alcune banche italiane che possano rilevare la quota di controllo del Mef. Perché dovrebbe funzionare?

Intendiamoci, neanche io considero quella proposta come l’ideale in senso assoluto, cioè se potessimo riscrivere la storia partendo da diversi anni fa. La vedo piuttosto come l’ultima chiamata per Mps, al punto in cui siamo arrivati, per evitare la prospettiva o di una soluzione peggiore, come la strategia stand alone o il coinvolgimento di una banca decisamente meno robusta, oppure della dissoluzione della banca con o senza il coinvolgimento dell’autorità di risoluzione Ue.

L’ultima ipotesi spaventa e non poco. La fine della banca più antica del mondo…

Quest’ultima ipotesi è quella che prevederebbe il manuale europeo per una banca che non riesce a reperire sul mercato capitale sufficiente. Non mi sembra però che il Sistema Italia, inteso come politica ma anche includendo una parte del settore finanziario, sia pronto a percorrere quest’ultima strada. Vedo piuttosto il rischio di quell’esito che gli americani chiamano calciare la lattina più avanti lungo la strada, ovvero, procrastinare ancora. Dopo quel che è successo nel 2017, procrastinare ancora è proibito.

Va bene, ma allora, come se ne esce?

Allora dico: con un’operazione collettiva, che non costerebbe troppo a nessuna delle banche coinvolte e che costerebbe al contribuente meno di quanto sarebbe costato il deal con Unicredit, possiamo chiudere la questione e mostrare anche ai partner europei che l’Italia è più coesa e decisa di quanto si creda. Questo penso sia nell’interesse a lungo termine di tutti. La condizione naturalmente è che partecipino tutte le banche principali. Nessuna, per esempio, dovrebbe chiamarsi fuori perché ha appena fatto una fusione, o perché ne sta progettando una. E che l’operazione sia davvero definitiva.

Questo significa che il nuovo Mps (un bell’ossimoro, per la banca più vecchia del mondo) dovrebbe avere numeri di bilancio eccellenti, essere parecchio più piccola e specializzata su prodotti e servizi importanti per il territorio di riferimento, e con un attivo interamente ripulito. Il che comporta una Asset Quality Review indipendente e rigorosa. Tutte cose che nel 2017 non sono state fatte.

Qualcuno ha tirato in ballo due grandi banche francesi. Ma il governo difficilmente darà il benestare. Lei che dice?

Sono assolutamente favorevole a un’ulteriore integrazione del settore bancario in Europa. Penso anzi che la legislazione europea dovrebbe essere modificata per favorire questo sviluppo. Nel caso specifico, però, mi sembra che questa prospettiva sia meno preferibile di un intervento italiano. Le banche francesi sono già presenti in modo significativo in Italia. Sarebbe bene inoltre che la soluzione non rischiasse di essere vista come un segnale di debolezza del nostro sistema, che deve ricorrere all’estero dopo vari tentativi non riusciti.

Torniamo alla sua proposta. Quando si pensa al soccorso di più banche verso un unico istituto (il caso Carige insegna), il pensiero ricorre subito al Fondo Interbancario. In cosa si differenzia la sua proposta da uno schema già visto in passato, quale quello del Fitd?

Mi ha preceduto solo di un attimo, avrei toccato questo punto proprio ora.

Poco male, allora. Prego.

La mia idea non coinvolgerebbe in nessun modo il Fitd. Per due ragioni. La prima è che il Fondo dovrebbe occuparsi della protezione dei piccolo depositanti, non di finanziare e gestire salvataggi bancari. Il punto di riferimento per un’istituzione di questo tipo deve essere quella che opera negli Stati Uniti, la Federal Deposit Insurance Corporation, o Fdic, come ha sostenuto anche il governatore Visco. La Fdic non ricapitalizza banche, le liquida quando falliscono rimborsando i depositi sotto una certa soglia. L’altra ragione è proprio il fatto che gli esempi passati non hanno dato buona prova.

Ho la sensazione che si riferisca al caso di Banca Carige…

Il caso che lei ricorda è uno di essi. Si tratta di una banca che dopo molti anni si trova ancora in condizioni precarie. Non credo sia colpa essenzialmente del Fondo, piuttosto si tratta di un compito per cui non hanno risorse e strumenti adeguati. Ho invece ipotizzato una joint venture, nella quale le banche di comune accordo affiderebbero a un team di manager il compito di presentare un progetto in tempi brevi che soddisfi determinati requisiti di sostenibilità. La natura collettiva dell’operazione sarebbe garanzia che la soluzione non rifletta l’interesse particolare di nessuno, sospetto che qualcuno aveva avanzato nel caso di Unicredit. E che non pesi in modo eccessivo su nessuno.

E il Tesoro, che ruolo dovrebbe avere nella partita?

Credo sia consigliabile è che il Tesoro non partecipi al negoziato, fissando semmai solo alcune condizioni generali in partenza.

Angeloni, secondo molti osservatori e anche secondo lo stesso ministro Franco, Unicredit si sarebbe sottratta al confronto perché il Tesoro non era disposto a sostenere un aumento di capitale molto sostanzioso. Secondo lei non c’era davvero più spazio di manovra?

Non ho informazioni su come si è svolta la trattativa, al di là di quello che si è potuto leggere sui giornali. Non sono pertanto in grado di rispondere a questa domanda.

La pandemia avrà come primo effetto quello di aumentare il tasso di incagli presso le banche italiane. Chi perde il lavoro o ridimensiona l’attività, difficilmente riesce a rimborsare un prestito. Dobbiamo aspettarci altre crisi bancarie dal sapore sistemico?

Le condizioni del sistema bancario sono una delle grandi incognite della fase post-pandemia, di cui non conosciamo ancora la risposta. L’effetto ci sarà, non c’è dubbio, anche se personalmente spero e credo che sarà inferiore a quello che la Bce, con giusta cautela, aveva stimato nei mesi centrali della crisi del Covid. I tassi di crescita elevati che l’economia italiana sta registrando in questo momento fanno ben sperare. Nel caso in cui, una volta sollevata la coperta dei provvedimenti anti-pandemia si dovesse scoprire che la crisi lascia strascichi insostenibili in certe banche, si potrà ancora intervenire con sostegni, ma in maniera più selettiva.

C’è da stare abbastanza tranquilli, insomma.

Quello che io pavento piuttosto è un’altra cosa: cioè, che passata la pandemia ritornino i persistenti problemi irrisolti del nostro sistema bancario, che, dobbiamo riconoscere oggi con una certa delusione, neanche l’unione bancaria è riuscita a risolvere appieno negli anni pre-Covid. Anche per questa ragione, metterci dietro le spalle il nodo Mps sarebbe un passo avanti importante.

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Le regole sui bilanci servono, anche al Pil dell’Italia. Parla Angeloni

Formiche
Intervista di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

Il varco è stato ormai aperto. Ursula von der Leyen ha mandato un messaggio sufficientemente chiaro a quei Paesi, Austria in testa, che sognano un ritorno delle vecchie regole di bilancio, non certo aggiornate alla pandemia e i suoi effetti catastrofici sull’economia. Quelle regole non possono tornare, non devono, perché il coronavirus ha stressato come non mai le finanze pubbliche.

Attenzione però, avverte  Ignazio Angeloni, economista alla Harvard Kennedy School, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce proprio negli anni di Mario Draghi al vertice dell’Eurotower e con un passato in Bankitalia: non sarà un tana libera tutti, delle regole su debito e deficit ci saranno sempre. Insomma, rigore forse no, ma vincoli sì. E chissà che le elezioni in Germania di fine settembre non siano in qualche modo decisive…

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, von der Leyen ha imposto la necessità di nuove regole europee, aggiornate alla pandemia. Possiamo considerare tramontata la stagione del vecchio Patto di Stabilità?

Non mi sembra che il discorso del presidente della Commissione Europea contenga indicazioni precise su questo, al di là dell’auspicio, forse ottimistico, che un accordo sarà raggiunto presto.

Eppure quanto udito ieri aveva tutta l’aria di una svolta…

Certamente non si tornerà alle procedure pre Covid, giudicate da tutti complicate e inefficaci. Ma una sorveglianza europea sui conti pubblici rimarrà e Paesi indebitati come l’Italia sono i primi a trarne vantaggio. Su questo punto, una parte del dibattito italiano è fuorviante.

Cosa intende dire?

Senza una cornice europea, di cui quella sorveglianza fa parte, l’Italia sarebbe sola a gestire i rischi del suo debito pubblico enorme contro future crisi di mercato, che non sono affatto improbabili. L’importante è che le nuove regole siano realistiche e vengano seguite.

Angeloni, però alcuni Paesi, come l’Austria, sognano un ritorno di Maastricht nella sua applicazione più pura. Non lo trova surreale alla luce dell’attuale situazione e del fatto che le principali economie del Continente, Francia, Germania e Italia, abbiano un deficit abbondantemente oltre i parametri?

Un ritorno a Maastricht potrebbe invece proprio essere la via. Quelle regole sono scritte nel trattato, quindi sono state condivise da tutti e richiedono unanimità per essere cambiate. Sono regole semplici, al contrario di tutte le sovrastrutture introdotte negli anni successivi. Un deficit del 3% porta, se il prodotto nazionale cresce del 3-4% a prezzi correnti con un’inflazione al 2%, che è l’obiettivo Bce, a un debito tendenziale attorno al 90% del Pil. Un obiettivo ragionevole per noi, escludendo nuove crisi, e coerente colla posizione degli altri Paesi.

Sta dicendo che il Trattato di Maastricht è tutt’altro che superato?

Sì, ma un passo avanti sarebbe escludere dal calcolo certe categorie di investimenti NgEu, su cui c’è un vaglio europeo. Se poi la crescita economica fosse maggiore, come si sperava ai tempi di Maastricht, si potrebbe fare anche meglio sul debito, senza sforzo. La strategia vincente per l’Italia in questa fase non è mettersi di traverso nel negoziato o porsi obiettivi irrealizzabili, ma ridurre il debito gradualmente rimanendo in linea con l’Europa.

Parliamo della Germania, baricentro d’Europa. Il 26 settembre finirà ufficialmente l’era di Angela Merkel. Che cosa dobbiamo aspettarci dal voto tedesco? Prevede qualche impatto di sorta sulla politica monetaria della Bce, ormai prossima a un piccolo ma primo disimpegno?

I sondaggi indicano come possibile un governo di centro-sinistra (Spd), con partecipazione dei Verdi e possibile innesto dei liberali. Tutti e tre questi partiti sono contrari a regole fiscali eccessivamente restrittive, tipo schwarze-null, pareggio di bilancio ma nessuno dei tre, credo, punterebbe a rinegoziare il trattato.

Prevede qualche impatto di sorta sulla politica monetaria della Bce, ormai prossima a un piccolo ma primo disimpegno, dopo il voto?

La prospettiva di una pace fiscale di lunga durata in Europa aprirebbe spazi anche per la Bce, oggi condannata a tassi negativi e a politiche di acquisto di titoli non più efficaci. Migliorerebbe il cosiddetto policy-mix, la combinazione delle politiche fiscale e monetaria, a tutto vantaggio dell’economia europea. Ma tutto questo per ora è fantasia: bisogna attendere il 26 settembre per capire quali saranno le combinazioni di governo possibili.

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L’inflazione, la connection Fed-Bce e l’euro digitale. Parla Angeloni

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Intervista di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

Le politiche ultra-accomodanti delle grandi banche centrali, Federal Reserve e Bce in testa potrebbero avere i mesi contati, nonostante le rassicurazioni sul proseguo degli stimoli arrivati dal governatore della FedJerome Powell, ascoltato dal Congresso americano nella notte italiana. E nonostante la presidente della Bce, Christine Lagarde, si sia sforzata di ribadire il sostegno della banca centrale all’economia ancora alle prese con la pandemia, spegnendo le insinuazioni di chi vede nella revisione della guidance monetaria sul tavolo del board la prossima settimana, il preludio di un intervento sul costo del denaro. Ma c’è chi vede un cambio di passo.

Formiche.net ha chiesto una lettura della situazione a Ignazio Angeloni, economista alla Harvard Kennedy School, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce proprio negli anni di Mario Draghi al vertice dell’Eurotower e con un passato in Bankitalia. Con lui abbiamo discusso anche di l’euro digitale.

La prossima settimana la Bce riunirà il board per approvare le nuove linee strategiche. In primis, il nuovo target d’inflazione sarà il 2%, non più poco al di sotto del 2%. Ma c’è vi vede in questo passo la fine della politica ultra-accomodante e il preludio di una possibile stretta monetaria. Lei che lettura dà?

Lo spostamento dell’obiettivo di inflazione al 2% è una misura opportuna, quasi ovvia. La definizione precedente aveva creato confusione e facilitato decisioni errate in passato. Ma anche l’attuale definizione presenta problemi.

Quali?

Anzitutto, l’ampiezza della fascia di oscillazione attorno al 2% non è stata specificata. Questo non facilita decisioni future, comprese quelle da prendere nelle prossime settimane e mesi. Inoltre, l’inclusione nell’indice dell’inflazione del costo degli affitti residenziali è rimandata a un futuro lontano. Che succederà nel frattempo? Sembra poco plausibile che questa componente, di cui è già stata decisa l’inclusione, venga ignorata totalmente. Dalle informazioni disponibili, quei costi potrebbero determinare un innalzamento del tasso medio di inflazione attorno allo 0,4%. Lo spostamento dell’obiettivo al 2% non compensa interamente questo aumento, dunque un effetto restrittivo dall’insieme delle due misure potrebbe esserci. Questo sarebbe inopportuno, perché le nuove line strategiche non dovrebbero avere conseguenze per l’intonazione generale della politica monetaria.

La Federal Reserve, nelle scorse settimane, ha dato i primi, inequivocabili segnali circa un possibile inizio del tapering, complice un’inflazione americana piuttosto tonica. Quale è la differenza, se ve ne saranno, tra il futuro approccio monetario della Fed e della Bce?

La presidente Lagarde ha detto giustamente che Stati Uniti e area euro hanno dinamiche economiche diverse, quindi differenze nell’intonazione e nell’orientamento delle politiche monetarie si giustificano. A questo si aggiunge il fatto che le linee strategiche annunciate dalla Bce differiscono da quelle annunciate dalla Fed il 27 agosto dell’anno scorso, che prevedono un target di inflazione calcolato in media su un certo numero di anni. Ma anche se strategie e politiche monetarie differiscono, ciò che avviene negli Stati Uniti non è indifferente per noi.

Dunque cioè che accade a Washington impatterà anche sulle decisioni della Bce?

I tassi di interesse sul dollaro si trasmettono alla struttura dei tassi in euro, oltre il brevissimo termine, per la catena di effetti che transitano attraverso i mercati finanziari. Quindi se la Fed stringe la politica monetaria, anche solamente in via precauzionale per assicurarsi contro rischi di inflazione per ora remoti, movimenti dei tassi a lungo termine si vedranno anche da noi. E in parte si sono già visti.

Angeloni, in questi giorni si decide il futuro dell’euro digitale. La Bce ha sancito l’avvio di una fase esplorativa. Crede che l’Ue abbia davvero bisogno di una moneta virtuale con corso legale?

Nell’area dell’euro la creazione di una nuova moneta digitale non è una necessità impellente, questo credo sia evidente a tutti. Il sistema dei pagamenti funziona bene, sia al dettaglio sia all’ingrosso, sia in presenza sia online, sia a livello sia domestico sia – dopo la creazione della Sepa (l’area unica dei pagamenti in euro in cui cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni degli Stati membri effettuano operazioni di pagamento in euro verso un altro conto, ndr)–  fra paesi diversi che usano l’euro. Il sistema attuale offre all’utente un ampio ventaglio di strumenti sicuri, efficienti e a basso costo: carte di credito e di debito, smartphone app di vario tipo, bonifici online, oltre ai vecchi assegni (in declino in quanto poco pratici) e ovviamente al contante. E poi il settore privato (banche e non) negli ultimi anni ha saputo conciliare innovazione e sicurezza, sotto la vigilanza delle banche centrali.

Allora non l’Europa non ha bisogno di un euro digitale…

Ci stavo arrivando. Detto questo, è opportuno, anche se non urgente, che le banche centrali dell’area euro affinino la loro esperienza nel settore delle monete digitali per prepararsi all’eventualità non prossima che il contante sparisca totalmente o anche magari per offrire all’utente un’ulteriore alternativa, anche se personalmente non credo che le banche centrali riusciranno a competere in efficienza e sicurezza con gli strumenti di pagamento già esistenti che ho ricordato. Se la Bce in futuro emetterà un euro digitale dovrà stare attenta che questo non disintermedi le banche e non crei problemi per la stabilità finanziaria, rischi di cui peraltro la Bce è ben consapevole. Va detto anche, infine, che esistono nel sistema dei pagamenti globale alcuni comparti poco efficienti, per esempio quello che gestisce le rimesse dei lavoratori all’estero. Qui le banche centrali possono svolgere un’azione utile, soprattutto stimolando la concorrenza ma forse anche creando canali alternativi.

E se le dico Bitcoin, lei che risponde?

Che non includo in questo discorso le cosiddette criptomonete, tipo Bitcoin, che non sono monete in realtà ma strumenti speculativi ad alto rischio che dovrebbero essere maggiormente regolamentati.

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