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Intervista con Chiara Placenti
Intervista con Chiara Placenti
Il Foglio – Intervista con Mariarosaria Marchesano
Milano. Il salvataggio di Credit Suisse rischia di trascinarsi dietro un ampio contenzioso per la scelta di penalizzare gli obbligazionisti rispetto agli azionisti. Scelta contestata dalla Bce e che ha fatto tremare il mercato, un effetto collaterale impensabile.
“Bisogna ammettere che a 15 anni dal crac di Lehman Brothers, i buoni propositi sulla riforma del sistema finanziario globale sono stati disattesi”, dice al Foglio Ignazio Angeloni, economista già membro del supervisory board della Bce e professore all’Istituto universitario europeo di Firenze.
Per Angeloni, non è stato fatto abbastanza per evitare che si ripetessero crisi bancarie con rischi sistemici.
“I casi delle banche regionali americane e di Credit Suisse sono molto diversi tra loro, ma ciò che li accomuna è la paura del contagio. Non si possono escludere altri focolai di crisi, ma l’Eurozona ha tutte le risorse per farvi fronte grazie al fatto che quel programma di riforme l’ha messo in pratica”. Il fatto è che non tutte le autorità monetarie e regolatori al mondo si sono impegnate allo stesso modo per prevenire crisi finanziarie come quella del 2008, con il risultato che la lotta all’inflazione che le banche centrali “stanno giustamente conducendo”, dice Angeloni, rischia di rallentare. “La Bce è stata chiara: gli obiettivi della stabilità dei prezzi e della stabilità finanziaria devono camminare di pari passo e penso che questo sia l’approccio corretto”.
Proprio la Bce in questi giorni di tensioni sui mercati ha cercato di tracciare una linea di demarcazione tra l’Eurozona, dove regole di vigilanza più restrittive hanno reso il sistema bancario più solido e patrimonializzato, e regioni dove le maglie sono state più larghe. C’è, però, chi ritiene che una crisi di fiducia nel settore bancario possa assumere forme non contemplate dagli stress test. In altre parole, regole più severe non mettono al riparo le banche italiane ed europee da un contagio basato su fattori essenzialmente psicologici.
“Penso che la Bce abbia ben presente il problema e si muoverà con una certa cautela, non è un caso che Lagarde nell’ultima riunione del board abbia evitato di impegnarsi su futuri aumenti dei tassi. E mi sembra che i mercati abbiano recepito in modo positivo il messaggio. Poi, certo, tutto può succedere e i mercati possono rovesciarsi, ma mi pare che la situazione sia, per ora, sotto controllo”.
Esiste un legame tra gli aumenti dei tassi e le tensioni finanziarie che si stanno sviluppando?
“Credo che le banche centrali, quando dal 2008 al 2021 hanno messo in atto un’espansione monetaria senza precedenti, non abbiano valutato abbastanza i rischi che avrebbe comportato, successivamente, l’inevitabile rientro. A questo si aggiunge il fatto che in Europa c’è stato un ritardo nell’avvio della lotta all’inflazione, anche se solo di qualche mese, con la conseguenza che il rialzo successivo dei tassi è stato più brusco. Ma questa è acqua passata, ciò che importa è che la direzione intrapresa poi sia quella giusta”.
Angeloni non condivide la posizione di quanti, soprattutto in Italia, auspicano un allentamento della stretta per scongiurare la recessione. Anzi, è convinto che, con il tasso attuale di deposito al 3 per cento e l’inflazione ancora intorno al 7-8 per cento, la Bce abbia ancora passi in avanti da fare.
“I tassi reali a breve termine sono ancora negativi – osserva – il che indica che siamo ancora in una fase espansiva. Quindi, mi auguro che l’incertezza dovuta alle crisi bancarie sia momentanea e che pur con la dovuta cautela nei futuri aggiustamenti l’inflazione venga riportata al più presto sotto controllo. Piuttosto, si parla troppo poco degli effetti della politica monetaria ultra espansiva”.
L’economista ricorda un’analisi del Ceps, think tank bruxellese, secondo cui i contribuenti europei rischiano di perdere fino a 700 miliardi nei prossimi anni: questo è il costo che la Bce deve sostenere per l’acquisto del debito sovrano dai paesi dell’Unione, a tassi inferiori agli interessi pagati ora sulla liquidità depositata dagli stati. E’ una questione molto tecnica, “ma la sostanza – conclude Angeloni – è che bisogna urgentemente asciugare questa liquidità per evitare di affossare il bilancio della Bce”.
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Formiche –
Intervista di Gianluca Zapponini
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Di Gianluca Zapponini
Intervista all’economista ed ex membro del Comitato esecutivo della Bce. Dal 2008 ad oggi ci è stato detto che le banche dovevano poter fallire, ma l’intervento parastatale sull’istituto svizzero è un’ammissione di fallimento. Svb è saltata perché non ha retto al rialzo dei tassi, dopo anni di espansione monetaria. Lagarde? Fa bene a tirare dritto
Guai a mettere tutto nel frullatore. Come a dire, a porre sullo stesso piano lo scampato crack del Credit Suisse con il default, quello sì, della Silicon Valley Bank. Non sono la stessa cosa, anche se la patologia può essere molto comune. Ignazio Angeloni, economista di lungo corso e docente presso il Robert Schuman Center of the European University Institute in Florence, è stato per anni membro del Comitato esecutivo della Bce. Per questo, quando gli si chiede un parere sulle recenti crisi bancarie che hanno scosso non poco i mercati, facendo rivivere per un momento ai risparmiatori lo spettro di Lehman Brothers, sa di cosa si parla.
Prima Svb, poi Credit Suisse, passando per First Republic. Due crack e un salvataggio per i capelli. Che cosa sta succedendo nelle banche? Ed è davvero colpa di un rialzo mal gestito dei tassi, come nel caso della stessa Svb?
Sono situazioni diverse, che hanno cause diverse. La cosa che le accomuna è il contagio, quella malattia infettiva delle banche che fa si che l’incertezza su una si trasmetta anche alle altre.
Ci spieghi.
La crisi degli istituti americani è il risultato dell’onda lunga della grande espansione monetaria. La fase di aumento della liquidità bancaria verificatosi dal 2008 ha incoraggiato ad assumere maggiori rischi, senza pensare troppo a cosa sarebbe successo in futuro. Ed è anche il risultato della deregolamentazione bancaria decisa dall’amministrazione Trump, che ha fatto si che le banche al di sotto di 250 miliardi di dollari di attivo non fossero più vigilate e sottoposte agli stress test a livello federale. Ora, quando l’espansione monetaria del periodo pandemico ha fatto crescere i loro depositi a dismisura, queste banche si sono imbottite di titoli di Stato a lungo termine, ritenendoli (non senza ragione) strumenti sicuri che rendevano qualcosa (i tassi a breve erano a zero negli Usa). Il rialzo successivo dei tassi le ha costrette a vendere quei titoli in perdita. In questo caso, se mi passa un paragone, incolpare il rialzo dei tassi è come attribuire alla disintossicazione la causa del decesso di un tossicodipendente.
Mentre invece nel caso europeo, che cosa c’è di diverso?
La crisi di Credit Suisse è diversa, lì davvero la banca ha grosse responsabilità: anni di gestione opaca e imprudente, al confine e oltre le regole, insieme alla vigilanza. Il caso Credit Suisse è più grave non solo perché rischiava di avere conseguenze in Europa a causa della dimensione e dei collegamenti di quella banca col sistema europeo (si tratta di una banca globalmente sistemica secondo le classificazioni internazionali), ma perché segnala che la riforma del sistema finanziario globale attuata dopo la grande crisi del 2008 non ha funzionato.
Qualcuno non ha imparato la lezione, pare di capire…
Allora si disse che non dovevano esserci più salvataggi a spese del contribuente, che le banche andavano messe in condizione di poter fallire, ovvero andare in risoluzione, senza danneggiare le altre, eccetera. Dopo quindici anni le autorità svizzere hanno invece decretato che Credit Suisse andava salvata, che non poteva andare in risoluzione senza creare uno scompiglio sistemico. Una grave ammissione di fallimento, che riguarda gli svizzeri ma anche tutto il sistema globale dei controlli bancari.
L’operazione Credit Suisse-Ubs ha un po’ il sapore del mercato, un po’ quella del salvataggio per mano di Stato. Che lezione possiamo imparare?
Si tratta di un salvataggio nel senso che le autorità sono intervenute con energia pilotando l’intervento di Ubs e determinando condizioni favorevoli per l’acquirente. Lo dimostra l’entusiasmo di borsa per Ubs dopo l’operazione. Le autorità hanno addirittura rovesciato l’ordine naturale del bail in, bruciando i creditori subordinati prima degli azionisti. D’altra parte, questi ultimi non sono stati neppure consultati, quindi andavano compensati in qualche modo. La lezione l’hanno data le autorità europee nel loro comunicato stampa, in cui ribadiscono la corretta gerarchia dei creditori: prima gli azionisti, poi i detentori di titoli subordinate (AT1), poi gli altri creditori, infine i depositanti.
Guardiamo a Francoforte, visto che parliamo di autorità. La Bce ha fatto ben intendere che un rallentamento sui tassi non è all’ordine del giorno, nonostante i citati guai bancari. Condivide?
Si, condivido. Penso che nell’ultima riunione la presidente Lararde si sia espressa bene, riscattando alcune comunicazioni infelici precedenti. Ha detto che la politica monetaria e la politica della stabilità finanziaria hanno obiettivi e strumenti diversi, e che la Bce agirà con decisione in entrambi i sensi. Così deve essere, salvo in condizioni di crisi conclamata, condizioni in cui oggi non ci troviamo. La Bce ha quindi proceduto con l’aumento dei tassi a breve, che rimangono comunque negativi al netto dell’inflazione, evitando però di impegnarsi sui movimenti successivi.
I mercati non sembrano aver reagito troppo male, in effetti…
Ho l’impressione questo messaggio sia stato compreso e condiviso. Dopo l’ultima riunione Bce, abbiamo assistito a una distensione sui mercati, soprattutto quello dei titoli pubblici.
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Sky TG 24
Class CNBC –
Intervista con Elisa Piazza
Formiche –
Intervista di Gianluca Zapponini
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Di Gianluca Zapponini
Non è tempo di processi e nemmeno di sentenze. Christine Lagarde, certo, ha i suoi torti. Ma non per questo sulla gestione del costo del denaro ha sbagliato tutto. Ignazio Angeloni, economista di lungo corso e docente presso la Robert Schuman Center of the European University Institute in Florence, il Comitato esecutivo della Bce lo conosce bene, visto che vi ha fatto parte per diversi anni.
E per questo quando gli si chiede un parere sulla spaccatura, nemmeno troppo superficiale, tra i falchi e le colombe, nelle persone di Isabel Schnabel per i primi e di Fabio Panetta per i secondi, non si scalda più di tanto.
La presidente della Bce Lagarde sembra voler perseverare nella sua politica a base di rialzi dei tassi. Ignorando, forse, che l’inflazione in Ue è in ripiegamento e che è figlia di strozzature imputabili, anche, al conflitto in Ucraina. E che quei barlumi di crescita cui stiamo assistendo potrebbero uscirne penalizzati. Non le sembra che la Bce abbia perso il contatto con la realtà delle cose?
Non credo si debba definirla la sua politica. Penso piuttosto che Lagarde cerchi di conciliare le diverse posizioni che esistono all’interno del Consiglio che presiede. Le quali, in alcuni casi, riflettono specifiche situazioni, esigenze e preferenze nazionali. Riguardo alla politica dei tassi, a me sembra che le mosse della Bce negli ultimi tempi mirino a riportare i tassi di interesse a breve reali – cioè al netto dell’inflazione – su un livello equilibrato, superiore allo zero anche se di poco. La situazione degli ultimi tempi in cui essi sono stati fortemente negativi era anomala e giustificata da condizioni eccezionali: prima i rischi deflazionistici, poi la pandemia. La situazione economica dell’eurozona oggi consente e richiede questa strategia di riequilibrio.
E questo ragionamento vale anche per un’inflazione riconducibile a fattori slegati dalla domanda?
Alcuni sostengono che la politica monetaria non dovrebbe agire perché la fiammata inflazionistica ha tratto origine dal lato dell’offerta. Ma è una tesi sbagliata. Per tenere sotto controllo l’inflazione, la domanda va regolata anche in funzione di ciò che accade all’offerta. E poi, comunque, i dati sui prezzi energetici, in calo ovunque, e sulle strozzature nelle catene produttive mostrano che anche la situazione dell’offerta si va gradualmente normalizzando.
La presa di posizione di Panetta e, a stretto giro quella di segno opposto, di Schnabel, danno la cifra di una crescente frattura in seno alla Bce. Lagarde dovrà tenerne conto, alla fine. Oppure no?
Sicuramente la presidente terrà conto delle diverse posizioni nel Consiglio. Penso anzi che lo sta già facendo. Recentemente vi è stata un po’ di incertezza dal lato della comunicazione, soprattutto a causa di certe enfatizzazioni eccessive fatte durante le conferenze stampa. Ritengo che il problema possa essere superato già a partire dalle prossime riunioni del Consiglio. A parte questo aspetto, a me sembra che la linea seguita dalla Bce negli ultimi tempi in materia di tassi di interesse sia sostanzialmente corretta.
Abbiamo più volte sentito dire come la Bce si sia mossa con colpevole ritardo rispetto alla Fed, che già dalla scorsa primavera era entrata in azione. Condivide questa lettura?
Penso anche io che la Bce si sia mossa con ritardo nello scorcio del 2021 e agli inizi del 2022, nel non recepire tempestivamente la presenza e la portata delle pressioni inflazionistiche che iniziavano a manifestarsi. Allora la politica monetaria era sbilanciata in senso espansivo e andava riequilibrata, anche per evitare che l’inversione risultasse troppo rapida e intensa in un momento successivo. Ma questa è acqua passata, ora si guarda avanti.
Fed e Bce proseguiranno in un unico solco, quindi?
Il paragone fra Fed e Bce è difficile, perché le situazioni sono diverse – tanto per cominciare, l’indice dei prezzi di riferimento è diverso. A grandi linee va comunque rilevato che il tasso di interesse controllato della Fed in questo momento è del 4,5-4,75%, con un’inflazione al 6.4% (gennaio). Nonostante ciò il presidente Powell ha detto che c’è ancora del lavoro da fare, cioè, ulteriori aumenti dei tassi. Da noi i dati corrispondenti sono 2,5% e 8,5%. Lagarde nell’ultima conferenza stampa ha detto che c’è del terreno da percorrere. Parole differenti, ma la sostanza è la stessa.
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Class CNBC
Formiche
Intervista di Gianluca Zapponini
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Di Gianluca Zapponini
Intervista all’economista ed ex membro del consiglio di sorveglianza della Bce. Al netto dell’isolamento che dopo il sì tedesco rischia di diventare imbarazzante, una ratifica del Trattato che riforma il Meccanismo europeo di stabilità comporterebbe una certificazione di sana e robusta costituzione dei conti pubblici italiani. Il premier è stato responsabile, lo dimostri ancora una volta. Anche perché la sovranità finanziaria non sarebbe in discussione
Sì, l’Italia presto potrebbe ritrovarsi isolata in Europa nello scacchiere del Mes, al secolo Fondo salva Stati. Ma Giorgia Meloni, che fin qui si è dimostrata lungimirante più di quanto si imaginasse, può ancora tirare fuori dal cilindro la mossa che proietterebbe il primo premier donna della storia italiana nel cuore dell’Europa.
Berlino ratificherà il Mes, è questione di settimane, a valle della decisione della Corte costituzionale tedesca che ha dichiarato inammissibile un ricorso che contestava gli atti nazionali di approvazione dell’accordo del 27 gennaio 2021, che modifica il Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Per questo, spiega a Formiche.net Ignazio Angeloni, economista presso il Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce, Roma dovrebbe prendersi del tempo e alla fine allinearsi al resto d’Europa.
Con il sì della Germania al Mes l’Italia è rimasta nei fatti pressoché isolata.
Era prevedibile che avvenisse. In genere, la Germania si muove lentamente ma senza arrestarsi: alla fine la decisione arriva quando gli altri non se lo aspettano. La ratifica della riforma dipende dalla firma del presidente, Frank-Walter Steinmeier, ma dopo la luce verde della Corte costituzionale dovrebbe trattarsi di un fatto formale e probabilmente rapido. A quel punto l’Italia sarà l’unico paese a bloccare l’adozione della riforma del Mes, e con essa le nuove modalità di assistenza finanziaria agli Stati e il sostegno di ultima istanza, il backstop, al fondo di risoluzione bancaria europea. Una situazione che può creare imbarazzo e richiedere qualche spiegazione in più sul perché la ratifica non sia ancora avvenuta.
Al governo però c’è Giorgia Meloni. Quali scenari aspettarsi, anche alla luce del governo attuale?
Difficile prevederlo. Per quanto riguarda l’assistenza agli Stati, l’aspetto che a me sembra più importante, una volta capito che le nuove modalità non comportano maggiori rischi di insolvenza, è che con la riforma non verrà più richiesto al Paese che ottiene una garanzia precauzionale, la precautionary line, di firmare un impegno con il Mes, sotto forma di Memorandum of understanding. La procedura di ottenimento diventa più informale, si tratta di una certificazione dello stato di salute del Paese e della sua finanza pubblica che il Mes può emettere senza richiedere documenti di impegno formalizzati.
Dunque?
Si apre quindi un’opportunità per questo governo: procedere alla ratifica e simultaneamente ottenere le certificazione. Con il Patto di stabilità ancora sospeso e assumendo che la legge di Bilancio vada in porto con il sostanziale assenso della Commissione Europea, quest’ultima dovrebbe essere ottenibile. La garanzia precauzionale del Mes apre la strada all’Outright Monetary Transaction della Bce: il cosiddetto bazooka anti spread varato da Mario Draghi nel 2012. Strumento più solido del Transmission Protection Instrument introdotto dalla presidente della Bce Lagarde a luglio.
La provoco. In un frangente post pandemico in cui il Patto di stabilità è ancora formalmente sospeso, quali i rischi per la nostra sovranità finanziaria, ammesso che ce ne siano, da una ratifica del Mes?
La sovranità finanziaria di un Paese come il nostro non si decreta: si conquista con una politica economica e finanziaria responsabile, che convinca gli investitori e, dietro a essi, le istituzioni europee a cui apparteniamo e che, anche nel nostro interesse, esercitano la vigilanza sulla stabilità dell’euro. Questo governo aveva suscitato qualche dubbio al tempo delle elezioni, ma la linea responsabile tenuta dalla presidente Meloni finora sembra avere attenuato quelle incertezze. Lo spread sui titoli italiani da settembre a oggi è gradualmente sceso. Un progresso importante ma ancora fragile. Una certificazione del Mes metterebbe quei risultati al sicuro e e ne garantirebbe altri. Per questo governo sarebbe un colpo da maestro.
E per quanto riguarda risoluzione bancaria?
In cauda venenum. Nel documento della Corte, in un paragrafo finale quasi invisibile, si dice che la Bce non potrà fare credito al Mes perché si tratterebbe di finanziamento monetario agli stati. Le conseguenze giuridiche di quella decisione vanno valutate, ma è possibile che essa impedisca alla banca centrale di fornire liquidità al fondo di risoluzione, che dopo la riforma sarà collegato al Mes. Bloccando così uno strumento che il Meccanismo di risoluzione unico aveva richiesto e che la stessa Bce ad alcune condizioni era disposta a concedere. In linea teorica non è un male: anche negli Usa il fondo di risoluzione (Orderly Liquidation Fund) è alimentato della Fdic, che si indebita con il Tesoro, non dalla Riserva Federale. Ma in Europa l’assenza di una funzione fiscale unica rende tutto più difficile. Andrà trovata una via alternativa per facilitare la risoluzione bancaria senza scontrarsi con i divieti del Trattato.
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