ECB must launch a new swap instrument to rein in liquidity

OMFIF

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It’s time to address the monetary policy elephant in the room

Taken by surprise by the resurgence of inflation, the European Central Bank started raising rates last summer and is still in the process of doing so. At her press conference on 16 March, President Christine Lagarde started her remarks with: ‘Inflation is projected to remain too high for too long.’ She then announced a 50 basis point increase in interest rates, the seventh in a row.

This firm stance, after a week of tremors in the global banking sector, was supported by an overwhelming majority of governing council members; only ‘three or four’, she said (out of 26), did not support her proposal. This was a remarkable demonstration of consensus and resolve by a very large committee.

Out of the spotlight, meanwhile, there is a huge elephant in the monetary policy room: the central bank’s balance sheet. Years of massive expansion have deposited a staggering €4tn of idle liquidity in the pockets of euro area banks. Until that stash of cash goes away, the ECB can only raise rates by subsidising the deposits it receives from banks. The remuneration on its deposit facility was raised from minus 0.5% last July to 3%, on a riskless basis. It will probably go beyond that. This is a hefty subsidy to bank shareholders: except for them, nobody today can access a risk-free rate of 3% in the open market.

This is a dangerous course. The assets the central bank holds against these deposits yield returns far below the funding cost. Calculations by Daniel Gros, a senior fellow of the Centre for European Policy Studies, show that this is enough to wreck the accounts of the ECB and its constituent national central banks in the years ahead. Bundesbank President Joachim Nagel must have felt some embarrassment recently as he announced to the German public that the losses of the German central bank last year are not covered by provisions. This is an accounting euphemism to say that the central bank may need financial support from the government, and indirectly from the national taxpayer.

Economic textbooks say that central banks cannot go bankrupt, but this is another euphemism. It is easy to think of situations where the central bank and the money it issues – the euro in this case – loses support and reputation among public opinions and political circles, some of which in Europe edge towards populism. When this happens, the loss of central bank independence is just around the corner.

The only way for the ECB to stay clear of danger is to keep its deposit facility rate low. But this is compatible with the intended monetary policy course only if the bank liquidity and the central bank’s outright portfolio of securities – two amounts which are roughly equivalent – are reduced in parallel, and fast. The ECB has started scaling down its securities holdings at a pace of €15bn a month on a net basis. This is not sufficient. Other things being equal, it would take some 27 years to reabsorb all the liquidity that is around through this channel alone. The ECB cannot afford to wait that long.

One way to accelerate the process is to re-activate a long-term liquidity-management instrument introduced by the ECB in 2014, the so-called ‘targeted long-term financing operation’, but in reverse. The new reverse long-term operation would auction out rights to swap central bank deposits for long-term securities on a long-term basis according to the maturity of the bonds. Auction participation would be voluntary but incentivised. Banks deciding not to swap out their central bank deposits would be penalised by a lower deposit rate. Swap rights could be calibrated by taking into account the balance of each bank at the deposit facility.

Calculations suggest that an auction mechanism so designed would induce profit-maximising banks to swap away large amounts of their deposits in exchange for temporary (but long-term) government bond holdings.

Regardless of the specific mechanism chosen, one thing is clear: a coherent package of measures and incentives lowering the deposit rate and reducing bank liquidity alongside the central bank’s portfolio is the only way the ECB can maintain monetary control and salvage, together with its own accounts, its operational flexibility and independence. The issue is urgent. Most national central banks of the euro area will soon present their accounts for 2022. At that time, the monetary policy elephant and its impact on European taxpayers will be apparent. The ECB would be better off having answers when this happens.

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Un campanello d’allarme per i regolatori Ue

Il Sole 24 Ore

La lezione della Silicon Valley Bank

Come un fulmine a ciel sereno, nell’economia Usa che va a tutto vapore e crea più posti di lavoro di quelli possa sostenere, scoppia una crisi bancaria. La peggiore da 15 anni, la seconda della storia americana dopo gli anni ottanta. Di solito queste cose succedono quando l’economia è in crisi o ci sono malversazioni o errori evidenti. Non è questo il caso. Che sta succedendo?

La Silicon Valley Bank (Svb) viene creata nel 1983 da un gruppo di imprenditori californiani abituati a riunirsi in venerdì sera per giocare a carte. Quattro amici al bar, direbbe Gino Paoli. L’idea è buona: far credito alle start-up con poco capitale e molte idee, snobbate dall’establishment bancario ma con enorme potenziale. Diversificando si diluisce un po’ il rischio, e le start up di successo generano profitti enormi. Dall’idea discende la struttura della banca: il funding a breve e due attività, private equity e titoli di stato. I titoli si comprano quando l’altro canale non riesce ad assorbire i depositi. Dati i rapporti di clientela, anche il funding si concentra nell’universo delle start-up, imprese e loro finanziatori.

Un modello troppo rischioso? Non sembra, anche se ora fioccano le critiche degli esperti del senno di poi e dei colossi bancari di New York a cui il successo di Svb dava forse fastidio. La accusano di avere avuto troppi titoli e pochi piccoli depositanti. Ma era una banca di nicchia, con una struttura semplice all’ingrosso, non una banca universale. Svb ha navigato per 40 anni le alterne vicende della finanza americana (Savings and Loan, Wall Street 1987, LTCM, bolla delle dot.com, Grande Crisi), con alterne vicende ma sempre crescendo. Nel 2008 ha ricevuto aiuti come tante altre, ma dopo poco ha rimborsato il credito con profitto per il contribuente. Il tallone di Achille era la specializzazione settoriale, ma era anche il suo punto di forza. E l’eccessiva deregolamentazione voluta da Trump, per effetto della quale la banca non era vigilata come sistemica (mentre invece lo era).

La verità è che Svb era come il canarino nella miniera, l’uccellino che, morendo, avverte i minatori che è salita la percentuale di gas tossico. La sua struttura la rendeva sensibile alle condizioni monetarie. Alla radice del problema vi è l’enorme espansione della liquidità generata dalla banca centrale degli anni precedenti; Svb è stata inondata di depositi, che ha investito in titoli di stato. Sarebbe stato meglio se avesse avuto più crediti rischiosi? Certo che no. Doveva prevedere l’aumento dei tassi di interesse? Neanche i banchieri centrali lo hanno fatto. La sensibilità della banca alla fine l’ha costretta a vendere titoli in perdita. Ma con quell’attivo, anche con un’alta trasformazione delle scadenze, una banca va rifinanziata senza limiti, dice la dottrina classica del credito di ultima istanza. Ciò che infatti avverrà, anche se con ritardo.

Da noi il rischio è decisamente minore per l’assenza di soggetti con quel modello di business, e perché i rischi di tasso sono evidenziati ogni anno dagli stress test della Bce. Ma bisogna fare attenzione perché il meccanismo appena descritto opera ovunque. A ben vedere, perfino nel bilancio delle banche centrali. Negli anni della grande espansione monetaria esse hanno raccolto depositi dalle banche e comprato titoli. Questo ha spostato rischio di tasso dalle banche alle banche centrali. Ora che i depositi sono costosi queste ultime hanno l’alternativa sgradevole fra smobilizzare i titoli con perdite di capitale, o tenerli e soffrire una perdita graduale per il margine di interesse negativo. Ricercatori dell’istituto CEPS di Bruxelles hanno stimato che la perdita cumulata della Bce potrebbe arrivare a 700 miliardi di euro. La Bce non fallirà perché può stampare moneta. Svb, vittima dello stesso meccanismo, va a fondo.

La buona notizia è che il timone è in mano ad autorità USA (Tesoro, Fed, Fdic) di grande capacità ed esperienza. Dopo la corsa ai depositi di giovedì, già venerdì la FDIC aveva creato un’altra banca sotto il suo controllo trasferendo tutti i depositi. Nel weekend, dopo un tentativo di vendita andato a vuoto, il terzetto Yellen-Powell-Gruenberg è intervenuto con due mosse: accordando una preferenza assoluta ai depositanti, che vengono rimborsati interamente invocando la systemic exception prevista dallo statuto Fdic, e rifinanziando le banche senza limite. Il “lend early and freely, to solvent firms, against good collateral” di Walter Bagehot (nella sintesi di Paul Tucker)più una componente fiscale, perché i titoli a garanzia sono valutati alla pari. Da lunedì i depositanti possono ritirare liberamente; gli altri creditori ricevono certificati che danno diritto pro-quota ai ricavi che la Fdic otterrà cedendo la banca o parte di essa. A quanto sembra, dopo queste due mosse i mercati si stanno già riprendendo e hanno iniziato a guardare altrove.

Ciò a cui abbiamo assistito è la conseguenza non della strategia arrischitata di una banca, ma di condizioni monetarie espansive mantenute a lungo senza una strategia di uscita tempestiva. Richiama quindi l’attenzione su cosa la politica monetaria può fare per prevenire l’instabilità finanziaria. E in Europa sulla necessità di avere un’autorità di gestione delle crisi forte, indipendente, professionale e dotata di mezzi finanziari e strumenti di intervento. La cosa che, a dieci anni dal lancio dell’Unione bancaria, ancora non abbiamo.

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Ci sono panni che sarebbe meglio lavare in famiglia

Il Sole 24 Ore

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Una settimana intensa, quella scorsa, per la Bce, con ben tre esternazioni di esponenti dell’esecutivo sull’argomento scottante del momento: la politica monetaria. Poteva essere l’occasione per chiarire i dubbi sollevati dalle recenti dichiarazioni della Presidente, Christine Lagarde

Una settimana intensa, quella scorsa, per la Bce, con ben tre esternazioni di esponenti dell’esecutivo sull’argomento scottante del momento: la politica monetaria. Poteva essere l’occasione per chiarire i dubbi sollevati dalle recenti dichiarazioni della Presidente, Christine Lagarde. Non è stato così. Si sono invece confermate le divisioni che esistono in questo momento all’interno della banca centrale.

Primo per competenza ha parlato il capo economista, Philip Lane. Ex governatore della Central Bank of Ireland, accademico doc, allineato con la tradizione monetaria moderata del suo Paese, è lui che sovraintende all’analisi economica nella banca centrale. Lane ha meticolosamente passato in rassegna modelli analitici e dati statistici, spiegato cosa essi dicono sull’intonazione della politica monetaria e sui suoi effetti sull’inflazione. Ha detto che quella attuale è la più intensa e rapida restrizione che si ricordi nella storia della Bce. Alcuni effetti si sono già visti, mentre altri devono ancora verificarsi. Ha infine confermato l’approccio attuale che consiste nel rialzare i tassi riunione dopo riunione, basandosi sui dati che si rendono disponibili.

Quasi contemporaneamente alla lectio magistralis di Lane, ha parlato il membro di nazionalità italiana, Fabio Panetta. Sulla stessa base analitica ha enfatizzato invece l’incertezza insita nel momento attuale, la difficoltà di interpretare il momento congiunturale (recessione o no?) nella fase di uscita dalla pandemia e dalle strozzature dell’offerta che ne sono seguite. Ha detto che incertezza suggerisce prudenza. Annunciare aumenti dei tassi equivale a «guidare a fari spenti nella notte». Alcuni osservatori ne hanno colto un attacco alla Presidente Lagarde, che nell’ultima conferenza stampa ha fatto proprio questo, annunciando l’intenzione di aumentare i tassi a marzo.

È ben noto che analisi e dati economici possono essere variamente interpretati: da qui il valore del dibattito che precede ogni decisione. Proprio per questo la politica monetaria è affidata a un comitato, anziché a un dittatore che decide in solitudine. Quello che i due interventi non dicono è che i modelli della banca centrale, elaborati in un periodo in cui l’inflazione era assente, sono gli stessi che dicevano un anno e mezzo fa che i prezzi non sarebbero cresciuti. E che la restrizione attuale è particolarmente intensa e rapida proprio per quella sottovalutazione iniziale e per il ritardo di reazione che ne è seguito. Infine, che il livello dei tassi di interesse a breve e medio termine – quelli che contano per famiglie e imprese – sono tuttora bassi o addirittura negativi in termini reali – al netto cioè di un’inflazione attesa che la stessa Bce stima al 5,9% per il 2023 e al 2,7% nel 2024.

Il terzo sasso nello stagno è stato lanciato da Isabel Schnabel, professoressa tedesca oggi responsabile del lato operativo della politica monetaria. In ciò che è suonato come l’affermazione della linea monetaria più rigida, Schnabel ha enfatizzato dati che mostrano che l’inflazione è ancora in corso; se l’è presa coi salari che reagiscono al carovita (ma come potrebbe essere altrimenti?); ha concluso che l’approccio graduale, “riunione dopo riunione”, sostenuto da Lane, è compatibile col preannuncio dei tassi, la cosa criticata da Panetta.

Una bella confusione. A uscirne potrebbe aiutare il fatto che, come accennato proprio da Schnabel, la Bce deve rivedere le procedure di intervento. In parole povere deve decidere cosa fare dell’enorme quantità di titoli di Stato che ha in bilancio e dell’altrettanto enorme liquidità creata. Un’opzione è quella di accelerare la riduzione di entrambi, tornando alla situazione pre-crisi in cui le banche erano in deficit strutturale di liquidità. Col duplice vantaggio di favorire il funzionamento del mercato dei titoli e di allentare anche le tensioni sui tassi. Per facilitare l’assorbimento dei titoli la Bce potrebbe tenere più basso il tasso sui depositi delle banche, parametro che oggi guida l’aumento dei tassi.

In definitiva, le dialettiche dei banchieri centrali non sono un male se aiutano l’escussione delle evidenze e portano a decisioni più consapevoli. Colpisce però il fatto che i tre abbiano portato il loro dissenso in pubblico, facendo leva sull’opinione pubblica e magari politica per far valere i propri punti. Addirittura fuori dalla zona euro: un’intervista a un’agenzia di stampa americana e due discorsi a Londra. I panni andrebbero lavati in famiglia, dice un proverbio italiano. Che esiste anche in inglese e in tedesco.

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Üppige Liquidität gefährdet die Unabhängigkeit der EZB

Börsen-Zeitung

In den vergangenen 15 Jahren hat die EZB, wie andere Zentralbanken auch, ihren Handlungsrahmen geändert.

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Die politische Ausrichtung der Europäischen Zentralbank (EZB) – eine allmähliche, aber schnelle Serie von Zinserhöhungen zur Eindämmung der Inflation – ist nun klar. EZB-Präsidentin Christine Lagarde hatte Ende vergangenen Jahres gesagt, dass die Situation „eine weitere Zinserhöhung um 50 Basispunkte auf unserer nächsten Sitzung und möglicherweise auf der übernächsten Sitzung und möglicherweise auch danach nahelegt“. Klaas Knot, Präsident der niederländischen Zentralbank und ein einflussreiches Mitglied des EZB-Rats, erklärte, dass die Zinserhöhungen nun „am Anfang der zweiten Hälfte“ stehen, nachdem die Zinsen von Juli bis Dezember 2022 um 2,5 Prozentpunkte angehoben wurden.

Eine bisher kaum diskutierte Frage ist, wie dies geschehen soll. Oberflächlich betrachtet befinden wir uns hier auf einem Nebenschauplatz, aber in Wirklichkeit sind damit große Probleme verbunden. Die Folgen könnten später auf die Zentralbank zurückfallen und zwar dort, wo es am meisten weh tut: bei ihrer Unabhängigkeit.

In den vergangenen 15 Jahren hat die EZB, wie andere Zentralbanken auch, ihren Handlungsrahmen geändert. Vor 2008 war es üblich, das Bankensystem mit zu wenig Liquidität zu versorgen und diese durch häufige Rückkaufgeschäfte zu refinanzieren. Nach der Finanzkrise führten die groß angelegten Ankäufe von Vermögenswerten (quantitative Lockerung) zu einem chronischen Überschuss an Bankenliquidität.

Im Zuge der Corona-Pandemie lief die quantitative Lockerung wieder auf Hochtouren: Die Liquidität, die vor der Krise praktisch bei null lag, beläuft sich nun auf etwa 4 Bill. Euro, was etwa 30 % des Bruttoinlandsprodukts (BIP) des Euroraums entspricht. Dies ist ein eindrucksvolles Beispiel für das, was der Wirtschaftsausschuss des britischen Oberhauses im Jahr 2021 als „Ratchet-up-Effekt“ bezeichnete: Die quantitative Lockerung steigt mit jedem negativen Schock an, wird aber anschließend nicht zurückgenommen. Der Bericht des Ausschusses stellt auch fest, dass die positiven Auswirkungen der quantitativen Lockerung über die kurze Frist hinaus fraglicher sind, als die Zentralbanken zunächst angenommen haben.

Ignazio Angeloni ist SAFE Senior Fellow und früheres Mitglied des EZB-Aufsichtsrats.

Es gibt zwei Ansätze, um den angehäuften monetären Überhang abzubauen, sobald die Zinssätze zu steigen beginnen. Die eine Option besteht darin, die quantitative Lockerung rückgängig zu machen und die zuvor erworbenen Anleihen zu verkaufen oder sie bei Fälligkeit nicht zu erneuern, bis der Überhang wieder abgebaut ist. Die andere besteht darin, die reichlich vorhandene Liquidität im Bankensystem zu belassen und die Marktzinsen durch eine Anhebung der Zinsen für die Einlagefazilität der EZB anzuheben.

Beide Ansätze sind wirksam mit Blick auf die Steuerung der Zinssätze, aber beim zweiten Ansatz behält die Zentralbank dauerhaft ein großes Portfolio an Staatsanleihen in ihrer Bilanz. Die quantitative Lockerung, die einst als „unkonventionelle“ Maßnahme zur Bewältigung von Notfällen galt, wird zur Norm in dem Sinne, dass ihre Folgen dauerhaft sind.

Erste Anzeichen deuten darauf hin, dass die EZB den zweiten Weg einschlagen wird. Seit Juli 2022 wurde der Einlagensatz im Einklang mit den anderen Zinssätzen angehoben. Ein moderater Abbau des Anleiheportfolios (15 Mrd. Euro pro Monat) wird voraussichtlich im März beginnen, aber ein hoher Einlagensatz (derzeit 2 % mit steigender Tendenz), der risikolos ist, hält die Banken davon ab, Staatsanleihen zu erwerben, die alle in unterschiedlichem Maße riskant sind.

Bereits 2019 kündigte die US-Notenbank Fed an, dass sie weiterhin mit einem großzügigen Liquiditätsrahmen arbeiten will. Die EZB könnte versucht sein, ihrem Beispiel zu folgen. Ein Argument für diese Entscheidung war, dass die Entkopplung der Liquidität von den Zinssätzen zur Verringerung der Risiken für die Finanzstabilität beiträgt. Als allgemeines Argument ist dies jedoch nicht überzeugend. Eine Zentralbank sollte immer bereit sein, die Liquidität in einer Krise auszuweiten, und sie sollte auch über die entsprechenden Ins­trumente und Befugnisse verfügen. Aber nirgendwo wird verlangt, dass jederzeit ein großes Liquiditätsvolumen vorgehalten wird. Im Falle der EZB wiegt das Argument aus drei Gründen schwer.

Erstens handelt die EZB im institutionellen Rahmen des Euroraums weitgehend allein, ohne Unterstützung durch einen zentralisierten Haushalt oder andere politische Instrumente auf Bundesebene. Dies fördert in politischen und öffentlichen Meinungskreisen den irreführenden Eindruck, dass die Zentralbank mit jedem Problem und Schock fertig werden kann und sollte. Wenn die EZB sich selbst und andere davon überzeugt, dass die Geldpolitik mit einem beliebigen Maß an Liquidität und öffentlichen Wertpapierbeständen ebenso gut durchgeführt werden kann, kann der Druck, Regierungen bei jeder plausiblen Gelegenheit und ohne Ausstiegsstrategie zu finanzieren, unwiderstehlich werden. An diesem Punkt geht die Unabhängigkeit verloren und damit auch ein wichtiges geldpolitisches Gegengewicht zur fiskalischen Macht der Nationalstaaten.

Vorsicht, Falle!

Der zweite Unterschied besteht darin, dass der Euro einem einzigartigen Risiko ausgesetzt ist, das mit der Fragilität der Finanzpolitik einiger seiner Mitglieder zusammenhängt – der Fragmentierung. Die Verpflichtung des ehemaligen EZB-Präsidenten Mario Draghi, „alles zu tun, was nötig ist“, um die Währung zu retten, hat dies zu einer impliziten Verantwortung der EZB gemacht. Im Jahr 2012 ging diese Wette voll auf – der Euro wurde ohne unmittelbare Kosten gerettet –, aber es ist unwahrscheinlich, dass sich dieses Ergebnis wiederholen wird. Jede potenzielle künftige Fragmentierung birgt die Gefahr, dass die Zentralbank in eine Verpflichtungsfalle gerät, die eine immer stärkere Monetarisierung der Staatsdefizite erfordert.

Schließlich deuten drittens langfristige Daten darauf hin, dass das Potenzialwachstum im Euroraum weniger dynamisch ist als in den USA. Die von der Europäischen Union eingeleiteten Reform- und Investitionsprogramme könnten dies ändern, aber solange dies nicht geschieht, werden die Forderungen an die Zentralbank, die Nachfrage zu stimulieren – auch durch die quantitative Lockerung, trotz der Zweifel an deren Wirksamkeit –, wahrscheinlich weiter bestehen.

Die EZB wird ihrer Verantwortung in dem komplexen Umfeld, in dem sie sich befindet, nur gerecht werden können, wenn sie die Kontrolle über ihre Bilanz behält. Dies erfordert nun, dass sie den derzeit geplanten Zinsstraffungszyklus mit einer deutlichen Verringerung ihrer öffentlichen Wertpapierbestände kombiniert, den Einlagensatz so bald wie möglich von den Marktsätzen abkoppelt und zu einem „begrenzten Liquiditätsrahmen“ zurückkehrt. Nach der jüngsten Klarstellung ihrer Zinsabsichten ist dies die nächste Front, an der die EZB ihre Entschlossenheit unter Beweis stellen sollte.

Ample liquidity puts the ECB’s independence at risk

OMFIF

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The central bank must maintain control of its balance sheet

The European Central Bank’s policy orientation – a rapid series of small interest rate increases to rein in inflation – is now clear. ECB President Christine Lagarde said in the December press conference that the situation ‘predicates another 50 basis point rate hike at our next meeting, and possibly at the one after that, and possibly thereafter’. She reiterated this warning on 19 January. Klaas Knot, governor of De Nederlandsche Bank and an influential member of the ECB governing council, stated that the interest rate rise is now ‘at the beginning of the second half’, following an increase of 2.5 percentage points from July to December 2022.

A separate and scarcely debated issue is how this will be done. On the surface, this seems like a sideshow, but in fact it hides trouble in the making. The consequences may later hit back at the central bank where it hurts most: its independence.

In the last 15 years, the ECB, like other central banks, changed its operating framework. Before 2008, it was usual practice to leave the banking system short of liquidity and refinance it through frequent repurchase operations. After the financial crisis, the large-scale asset purchases (quantitative easing) produced a chronic excess of bank liquidity.

With Covid-19, QE restarted at full speed: liquidity, virtually zero in pre-crisis times, is now as high as €4tn, some 30% of the euro area’s gross domestic product. This is a striking example of what the UK House of Lords’ Economic Affairs Committee in 2021 called the ‘ratchet-up effect’: QE rises with every adverse shock but is not withdrawn subsequently. The committee’s report also notes that the beneficial effects of QE beyond the short term are more doubtful than central banks have assumed.

There are two approaches to dealing with the accumulated monetary overhang once interest rates start rising. One is to put QE in reverse, selling the bonds previously acquired or not renewing them at maturity until the overhang is reabsorbed. The other is to leave this ample liquidity within the banking system and lift market rates by raising the interest on the ECB’s deposit facility.

Both approaches are effective in steering rates, but with the second the central bank retains a large portfolio of Treasury bonds in its balance sheet on a permanent basis. QE, once thought to be an ‘unconventional’ measure to face emergencies, becomes the norm in the sense that its consequences are permanent.

Early signs suggest that the ECB leans towards the second avenue. Since last July, the deposit rate has been lifted in line with other rates. A moderate scale-down of the bond portfolio (€15bn per month) is expected to start in March, but a high deposit rate (now 2% and rising), which is riskless, discourages banks from acquiring Treasury bonds, all of which are to various extents risky.

In 2019, the US Federal Reserve announced its intention to continue to operate with an ample liquidity framework. The ECB may be tempted to follow its example. One argument given for that decision was that de-linking liquidity from interest rates helps reduce financial stability risks. As a general argument, however, this is unconvincing. A central bank should always be ready to expand liquidity in a crisis and have the instruments and powers to do so, but nothing requires that large liquidity volumes be maintained at all times.

In the case of the ECB the balance of the argument weighs on the opposite side for three reasons.

First, in the euro area institutional setting, the ECB acts largely alone, without support from a centralised budget or other policy instruments at the federal level. This encourages among political and public opinion circles the misleading impression that the central bank can and should deal with any problem and shock. If the ECB convinces itself and others that monetary policy can be conducted equally well with any level of liquidity and public securities holdings, the pressure to finance governments at any plausible occasion and without an exit strategy may become irresistible. At that point independence is lost and with it a vital monetary counterbalance to the fiscal power of the nation states.

The second difference is that the euro faces a unique risk linked to the fragility of some of its members’ fiscal side – fragmentation. Former ECB President Mario Draghi’s commitment to do ‘whatever it takes’ to salvage the currency has made this an implicit responsibility of the ECB. In 2012 that bet paid out beautifully – the euro was salvaged at no immediate expense – but that outcome is unlikely to be repeated. Any potential future fragmentation episodes risk bringing the central bank into a commitment trap, requiring an ever-growing monetisation of government deficits.

Finally, long-run evidence indicates that potential growth in the euro area is less dynamic than in the US. Reform and investment programmes launched by the European Union may change that but, until that happens, calls on the central bank to stimulate demand – also through QE operations in spite of the doubts about their effectiveness – are likely to persist.

The ECB will be able to fulfill its responsibilities in the complex environment it finds itself in only if it maintains control over its balance sheet. This now requires combining the planned interest rate tightening cycle with a marked scale-down of its public securities holdings, de-linking the deposit rate from market rates as soon as feasible and returning to a ‘limited liquidity’ operating framework. After clarifying recently its interest rate intentions, this is the next front where the ECB should demonstrate its resolve.

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Troppi ripensamenti e poco equilibrio nelle parole della Bce

Il Sole 24 Ore

La recente decisione della Bce – aumento dei tassi dello 0,50% e riduzione graduale del portafoglio titoli a partire da marzo – ha suscitato reazioni di sorpresa e allarme in Italia. “I falchi prevalgono sulle colombe”, e altri commenti dello stesso prevedibile tenore. In realtà essa è meno sorprendente e preoccupante di quanto sia apparso. Niente panico dunque, solo un sano richiamo alla realtà.

A chi aveva occhi per vedere era chiaro almeno da un anno che un’inflazione partita con una forte impennata dei prezzi di energia e cibo, le due sole cose che nessuno può fare a meno di consumare ogni giorno, non poteva arrestarsi rapidamente. Che al movimento iniziale sarebbero seguiti aumenti di tutti gli altri prezzi e anche dei salari; a meno che non si pensasse, in un contesto di disuguaglianze crescenti, di ridurre alla fame chi vive di paghe e pensioni basse e dipende più di altri da quei due beni per andare avanti. E anche che vi sarebbe stata poi qualche rincorsa fra prezzi e salari, in parte inevitabile ma controllabile con una politica monetaria orientata in senso più restrittivo. Tutte le analisi ci dicono che l’inflazione in Europa è persistente: quando parte fa fatica a fermarsi, per ragioni legate alla natura dei mercati dei beni e del lavoro. Giovedì scorso la BCE ne ha preso atto, portando le previsioni di inflazione al 6,3% nel 2023, al 3,4% nel 2024 e al 2,3% nel 2025. Un semplice calcolo mostra che se l’inflazione in ogni mese, finora 0,8% in media quest’anno, si dimezza l’anno prossimo scendendo allo 0,3-0,4% e poi cala ancora fino all’1-2% nel 2025 – andamento ragionevole escludendo altre impennate delle materie prime – si ottengono proprio quei valori nella media dei prossimi anni. Forse la BCE stavolta ha fatto proprio quel calcolo invece di affidarsi a modelli previsivi più sofisticati.

Con questi dati il fatto che la banca centrale abbia aumentato i tassi dello 0,5% portandoli fra il 2 e il 2,75 per cento non deve stupire. I mercati finanziari infatti si attendevano esattamente questo. Le tre banche centrali con cui ci confrontiamo, la Fed, la Banca d’Inghilterra e la Banca Nazionale Svizzera, hanno preso la settimana scorsa esattamente la stessa decisione. Coincidenza senza precedenti che dimostra che si trattava di una decisione naturale in un contesto in cui l’inflazione, e in particulare questa inflazione, ha origine e tratti comuni a livello internazionale.

Perché allora mercati e commentatori, spaventandosi a vicenda, hanno reagito così male, con aumenti improvvisi degli spread e caduta delle borse (quelle europee, peraltro, scese del 3% dopo una salita di oltre il 20% nei mesi precedenti)?

In parte, credo, per il modo poco felice in cui quella decisione è stata spiegata giovedì scorso. Nel comunicato diffuso online prima della conferenza stampa non si usa neppure una parola per spiegare la decisione presa. Non si dice nulla del perché si sia deciso di rallentare la salita dallo 0,75 deciso in precedenza allo 0,50% — spiegazione che avrebbe portato a un messaggio complessivo più equilibrato. Tutto il resto del lungo ed enfatico paragrafo iniziale è dedicato a quello che la banca centrale farà nei prossimi mesi in termini di ulteriori restrizioni. Con due parole chiave: “steady” (costanti), che suggerisce aumenti simili in futuro; e “keeping” (mantenendo), che suggerisce che una volta portati in alto, i tassi vi saranno mantenuti a lungo.

Rispondendo ai giornalisti la Presidente ha poi rincarato la dose dichiarando che “steady” significava proprio 0,50 per cento. Gli aumenti futuri saranno proprio di quell’entità. Contraddicendo quanto detto tante volte, cioè che si sarebbe deciso di volta in volta guardando ai dati, ha invece detto in modo straordinariamente preciso ciò che farà in futuro. Il contenuto effettivo della delibera è stato così presentato in modo eccessivamente restrittivo. Credo e spero che vi siano opportunità future per ricalibrare il messaggio, evitando peraltro la cacofonia di opinioni diverse cui si è assistito in passato.

A me personalmente preoccupa un’altra indicazione, passata invece sotto silenzio. Prima fra le istituzioni europee, la BCE ha esteso la previsione al 2025, ben oltre il rallentamento congiunturale in corso. La crescita dell’eurozona viene stimata all’1,9% nel 2024 e all’’1,8% nel 2025: in media, la stessa degli anni pre-pandemici. La BCE vuole forse dirci che fino ad allora il programma Next Generation EU, che finisce nel 2027, non avrà alcun effetto? Speriamo di no.

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Contante, evasione, Pos: non facciamoci distrarre da problemi minori

Il Sole 24 Ore

La tentazione di occuparsi di un problema minore quando ben più seri ma più difficili problemi incombono è sempre irresistibile

Il Sole 24 Ore >>

La tentazione di occuparsi di un problema minore quando ben più seri ma più difficili problemi incombono è sempre irresistibile. Abbiamo il sospetto che la diatriba sull’uso del contante, sorta improvvisamente mentre c’è da chiudere un bilancio, recuperare i ritardi del Pnrr, affrontare drammatici rischi geologici e Ischia e altrove, aiutare gli Ucraini a sopravvivere al gelo e alle bombe, eccetera, sia in parte uno di questi casi.

Ha cominciato il governo. La coalizione, dopo aver vinto brillantemente le elezioni, si incaponisce a soddisfare promesse elettorali di piccolo cabotaggio. Tale è quella di alleviare l’obbligo di pagare con PoS (per i non anglofili: significa Point of Sale, il dispositivo che consente il pagamento elettronico con carta). Il governo attuale vorrebbe fissare la soglia a 60 euro, quando in precedenza era fissata a 30 euro. Un grosso cambiamento? Non sembra. Probabilmente consentirebbe a piccoli venditori al dettaglio, tassisti e negozianti, di far passare in nero alcuni piccoli ricavi, evadendo l’imposta. In quanto tale il provvedimento può essere inopportuno, soprattutto se accompagnato da ammiccamenti da parte di politici che lasciano intendere che non solo questa piccola evasione sarà tollerata, ma che in fondo è un bene che sia così. Detto questo, il problema dell’evasione fiscale in Italia, assai serio, certo non dipende dall’aumentare quella soglia di poche decine di euro.

Più importante è l’innalzamento del limite legale dei pagamenti in contante a 5.000 euro. Una cifra grossa: a occhio e croce il salto da 1.000 euro (tale sarebbe il limite dal 1 gennaio a legislazione invariata) a 5.000 euro porterebbe sotto la soglia una buona parte delle fatture tipicamente emesse, rendendole quindi potenziali candidate all’evasione con conseguenze difficilmente calcolabili. Su questo punto la decisione sembra ancora aperta. È quindi sperabile che il governo cambi idea.

Beninteso, promuovere l’uso di strumenti di pagamento efficienti è del tutto legittimo e opportuno. Lo strumento più valido per farlo è la concorrenza fra le banche e i circuiti. La storia delle carte di pagamento è illuminante. Partite negli anni 50 del secolo scorso (gli anziani ricordano ancora Diners e Bankamericard) le carte di credito e di debito si sono rapidamente affermate in tutto il mondo a grande richiesta dei consumatori, che ne hanno imposto l’uso agli esercenti. Questi ultimi sono a volte riluttanti perché ne devono sopportare i costi, ma alla fine le hanno dovute accettare per non perdere clienti. Da notare, per inciso, che alla fine tutti gli esercenti ci guadagnano: ricerche al confine fra l’economia e la psicologia hanno dimostrato che chi usa le carte spende di più di chi paga col contante. La concorrenza ha poi abbassato le commissioni, soprattutto sulle carte di debito, che addebitano in conto, ma anche su quelle di credito, che consentono il pagamento differito. Il mercato in questo campo ha prodotto effetti stupefacenti: basti pensare al fatto che il formato della carta, il rettangolo di plastica di 85,6 per 53,98 millimetri, con angoli arrotondati di raggio 3,18 millimetri, è lo stesso in tutto il mondo, mentre ancora non siamo riusciti ad armonizzare le prese elettriche e le ricariche dei telefoni. Anche la concorrenza esercitata dal contante aiuta. In Germania, paese notoriamente affezionato al contante, per il cui uso non ci sono limiti, la carta di debito (EC-Karte, o Girocard) è diffusissima, accettata di buon grado in tutti gli esercizi e si usa anche per prelevare contante ai supermercati (senza commissione). Per gli acquisti al dettaglio la commissione media è dello 0,05 per cento (stima Bundesbank). Un costo che, a quanto è dato sapere, è molto più basso di quello accessibile agli esercenti italiani. Morale della storia: il mercato funziona bene in questo settore, perfino nella rigida Germania.

Tornando in Italia, all’orientamento espresso dal governo ha risposto la Banca d’Italia. Fabrizio Balassone, capo dell’area economia strutturale dell’Istituto, nell’audizione parlamentare del 5 dicembre ha fatto tre cose. Anzitutto ha riconosciuto che la legge di bilancio è nel complesso prudente, rispettosa dei vincoli della finanza pubblica pur mentre usa gli spazi disponibili per favorire le famiglie meno abbienti o in altro modo bisognose. Poi, nell’elencare i vari punti della manovra, ha puntato il dito su alcuni rischi derivanti dalla revisione del reddito di cittadinanza (rischio povertà), dall’estensione della “tassa piatta” (rischio diseguaglianze) e dagli interventi di rottamazione e stralcio delle cartelle esattoriali (a proposito di “ammiccamento” agli evasori). Tutte ossrvazioni condivisibili, espresse e documentate con pacate parole e indubbia autorevolezza. Infine, sulla questione del contante ha richiamato varie ricerche che confermano l’esistenza di un legame causale fra uso del contante ed economia sommersa.

Su quest’ultimo punto è lecito esprimere qualche dubbio. L’evidenza internazionale non è univoca (grafico a fianco); ci sono anche vari casi in cui una preferenza per il contante non si accompagna a fenomeni diffusi di indisciplina fiscale evasione o criminalità. Il legame fra i due fenomeni dipende dal contesto. L’uso del contante, piuttosto che determinare il sommerso e l’evasione, li consente quando essi sono già diffusi per altre ragioni. In questi casi alcune restrizioni si giustificano, ma sempre nel rispetto di criteri di praticità e della preferenza delle persone. Voler pagare in maniera non tracciabile non indica sempre un reato, così come non lo indica il voler tenere riservato quello che uno scrive in una lettera o in un messaggio online.

La presidente Meloni ha ragione quando dice che le critiche mosse dalla Banca d’Italia alla sua manovra non sono sostanziali. Forse la principale richiesta, espressa sotto traccia, è che il suo governo trasmetta chiari segnali a tutti gli italiani, e soprattutto ai suoi elettori, che l’evasione fiscale è un male che danneggia tutti e che non sarà tollerata. Segnali che finora non sono stati espressi con la stessa chiarezza da tutte le componenti del governo.

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Germany’s “double ka-boom” on energy is open to criticism, but appropriate

Together with Daniel Gros

Europe has reacted skeptically to the German government’s multi-billion euro package to combat the energy price crisis. However, the so-called “double ka-boom” provides the right incentives to save energy

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The German government’s program to provide up to 200 billion euros in subsidies to households and enterprises to deal with the energy price crisis, described as a “double ka-boom”, has caused an uproar throughout Europe. Germany was (and still is) accused of two things: first, the excessive size of the package, which would result in inappropriate state aid for Germany compared with other countries in the European single market; and second, the fact that the German government acted alone rather than in concerted action with other European countries.

Since the German government adopted the proposals of an energy expert commission, we know how Germany intends to proceed, where before (during the initial reaction in other European countries), there was only conjecture.

The commission set up by the German government (consisting of 21 experts, including economists, trade unionists, and entrepreneurs, generally with pro-European and pro-climate tendencies) represented a contrast to the procedure in other EU countries. Only in Germany has it been left to experts to draw up plans on how the government can best help families and businesses cope with high energy prices without losing incentives to save energy. In most EU countries, the government has decided for itself and has been the target of enormous political pressure.

This is perhaps also the reason why the measures now adopted by the German government have little to do with the accusations from abroad. This applies in particular to the concerns that were raised in Italy.

The COVID-19 pandemic rescue package as an example

First, 200 billion euros is not as much as it might seem. The German government under Chancellor Olaf Scholz has named a high amount, more to reassure the public that the government is serious than to name a fixed sum that is budgeted that way.

A similar scenario played out in the spring of 2020 at the beginning of the COVID-19 pandemic: the German government announced a gigantic aid package totaling around one trillion euros. However, this was the upper limit for possible loans and guarantees. In the end, a fraction of the funds provided were used, and in 2020 and 2021, according to the figures of the European Commission, Germany spent much less to support the economy than countries like Italy or France (about half in relation to their respective gross domestic product). This could now be repeated.

Of course, the economy and citizens in Germany should be helped to cope with exorbitant gas prices; all governments are trying to meet this need. At the same time, however, incentives should be created to consume less energy, because gas is currently in extremely short supply.

Two-tier system maintains incentives to save energy

To address this trade-off, the commission has proposed subsidizing only a base amount, equal to 80 percent of past consumption. Any kilowatt-hour above this amount must be paid for at the market price. The one-time payment in the amount of a monthly budget bill at the beginning of winter also leaves the incentive to save unchanged. A similar two-tier system is intended for industry. Only 70 percent of past consumption is subsidized.

One can imagine even better systems to help consumers and industry; but this two-tier system maintains the incentives to save energy. This is not the case in many other countries, where prices are usually reduced without a cap on consumption. A general gas price brake, as advocated by some countries led by Italy, would lead to increased consumption. The hope that households will reduce their consumption in spite of everything seems deceptive. Government appeals alone, as in France, have had little effect so far. Without incentives to save energy, however, the EU will not achieve its goal of 15 percent less consumption this winter (and next winter; without Russian gas would be problematic again).

The question arises: Is it fair to put a monetary incentive on a necessary good that should be guaranteed for all, such as the energy that heats homes and warms food, even more so when cold weather sets in and winter is just around the corner? On reflection, it seems that some incentive to save makes sense. In Spain, where the use of gas to generate electricity is subsidized by the state, gas consumption has risen, while in Germany it has fallen by around 15 to 20 percent. In Italy, consumption has barely changed so far. The outgoing government has shortened the heating period in multi-family dwellings by two weeks for the winter of 22/23. But that’s not enough. The new Italian government under Giorgia Meloni must take further measures to reduce energy consumption if Italy, too, wants to help solve the problem.

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Nuovo Patto di stabilità, le premesse sono buone (ma le proposte meno)

Il Sole 24 Ore

Sono uscite qualche giorno fa le proposte della Commissione Europea per la riforma del Patto di stabilità

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Sono uscite qualche giorno fa le proposte della Commissione Europea per la riforma del Patto di stabilità – ovvero, le nuove regole sui bilanci pubblici degli Stati. Il documento dell’esecutivo europeo contiene una buona esposizione degli obiettivi della riforma e dei problemi che si frappongono; offre una base di discussione al Consiglio e al Parlamento europei, che dovranno deliberare da qui al 2024. Nel complesso, però, a parte alcuni utili spunti le proposte non convincono.

La Commissione parte da tre premesse condivisibili. La prima è che le regole debbano essere semplici, il che significa prima di tutto evitare meccanismi astrusi e opinabili che rendono le disposizioni poco trasparenti. Il secondo obiettivo è facilitare la “condivisione”: fare in modo cioè che gli Stati membri sentano obiettivi e programmi della politica di bilancio come propri, anziché imposti dall’alto. Infine, i bilanci degli Stati devono essere orientati al medio termine, lasciando spazio per le politiche di investimento rese necessarie dalle due “nuove frontiere” dell’Unione: la transizione verde e quella digitale.

Le proposte non sempre muovono coerentemente da queste premesse. La semplicità anzitutto. Viene sì eliminata la correzione ciclica degli obiettivi fiscali, che tante discussioni e contrasti ha provocato in passato, ma la complicazione e il tecnicismo rientrano dalla finestra in due modi. Primo, prevedendo analisi di sostenibilità fiscale a lungo termine corredate da «stress test e analisi stocastiche»; tecniche econometriche difficili i cui risultati dipendono sempre da ipotesi opinabili. Secondo, cosa ancor più importante, la “variabile di controllo” della politica fiscale viene identificata con la spesa pubblica primaria netta; al netto cioè di interessi, di componenti una tantum e di una non meglio esplicitata «componente ciclica» della spesa per la disoccupazione. La definizione di questa variabile, che ha un ruolo cruciale nell’intera procedura, sarà definita in seguito, ma l’impressione è che essa nasconda complicazioni non inferiori a quelle incontrate in passato.

La “condivisione” verrebbe raggiunta – questa la principale novità – dal fatto che i piani fiscali vengono presentati dagli Stati stessi, non più imposti dall’alto. Tuttavia la procedura appare più intrusiva che in passato. Gli obiettivi di deficit e debito pubblico verrebbero conseguiti controllando la spesa, non i deficit e i debiti direttamente: ci si propone dunque di regolare non solo i saldi di bilancio, ma anche la loro composizione fra spese ed entrate. Un cambiamento sostanziale: fino a ora si era ritenuto, non senza ragioni, che fossero i deficit e i debiti eccessivi a creare problemi attraverso la loro pressione sui mercati dei titoli pubblici, e che la dimensione complessiva di entrate e spese potesse restare appannaggio nazionale. Inoltre, i piani fiscali verrebbero sì presentati dagli Stati, ma su una falsariga preparata dalla Commissione e resa pubblica. In caso di disaccordo, per i Paesi maggiormente indebitati sarebbe quella falsariga a contare nel determinare eventuali infrazioni e sanzioni.

La “regola della spesa” apre una falla nella procedura. Cosa assicura che, ferma restando la spesa, uno Stato membro non aumenti il debito riducendo le imposte, per esempio introducendo una flat tax non sostenibile? Cosa assicura che, essendo la spesa calcolata al netto degli interessi, in caso di aumento degli oneri per interesse le altre componenti del bilancio siano regolate per evitare una lievitazione del debito? Domande per il momento senza risposta.

Crescita e sostenibilità di medio termine potrebbero anch’esse essere penalizzate. Quando si tratta di ridurre la spesa, gli investimenti sono sempre i primi a essere sacrificati. La via maestra sarebbe quindi quella di escluderli dal calcolo, riservando loro un trattamento ad hoc sotto il controllo europeo. Idea tante volte proposta e oggi ancor più valida alla luce dei programmi di trasformazione strutturale che l’Europa si propone.

Che fare, allora? La fase decisionale appare complessa soprattutto per l’Italia – la “grande osservata” in materia di bilanci. Sarà essenziale mantenere un atteggiamento costruttivo, evitando l’isolamento e cercando anzi alleanze su significative correzioni, fermi restando gli intendimenti iniziali ben sintetizzati dalla Commissione. Sarebbe utile muovere qualche passo di ritorno verso la procedura esistente, riveduta e corretta. Niente è ancora deciso; la strada negoziale è ancora lunga.

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Mps è salva. Ma resta un dubbio sull’operazione Siena

Formiche
Di Gianluca Zapponini


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Di Gianluca Zapponini

La ricapitalizzazione da 2,5 miliardi messa in cantiere da Draghi e portata a termine dal governo Meloni è stata coperta per il 96,3%, grazie agli 1,6 miliardi garantiti dal Tesoro azionista e al ruolo delle Fondazioni, intervenute su espressa richiesta di Via XX Settembre. L’economista ed ex Bce Angeloni a Formiche.net: la banca resta sostenuta dallo Stato e questo rende il risanamento più difficile. Ora speriamo che i margini impediscano nuovi esborsi

Ora che la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi è andata in porto (l’aumento è stato coperto al 96,3%, con le otto banche del consorzio di garanzia e il fondo Algebris che dovranno accollarsi azioni residue per un controvalore di poco più di 93 milioni di euro), la domanda che sorge quasi spontanea è: e adesso? La risposta è più o meno questa.

Adesso il piano industriale messo a punto, lo scorso febbraio, dal ceo di Mps, Luigi Lovaglio, può finalmente passare alla fase operativa. E il primo mattoncino, se così lo si può chiamare, sono le oltre 4 mila uscite volontarie da Rocca Salimbeni, il cui costo si aggira su per giù intorno al miliardo. Praticamente l’ammontare della quota di aumento garantita dagli investitori privati: fondi, fondazioni, piccole banche. Ma c’è forse una domanda da porsi, ora che il pericolo di finire a gambe all’aria è scampato.

E cioè, premesso che il salvataggio di Mps ha poggiato essenzialmente su due gambe, la prima quella dello Stato azionista e padrone (64%) di Siena, che ha staccato un assegno da 1,6 miliardi di soldi pubblici mentre la seconda è quella delle fondazioni bancarie, chiamate a raccolta dallo stesso Tesoro su input di Mario Draghi (in raccordo con Giorgia Meloni, fin dall’estate scorsa), non è che alla fine l’intero peso della ricapitalizzazione andrà a scaricarsi sul patrimonio (privato) delle stesse fondazioni e magari sui contribuenti italiani?

Attenzione, perché il film potrebbe essere già visto. Cinque anni fa, lo Stato per mano del Tesoro (c’era Paolo Gentiloni al governo), entrò in forze e con tutti e due i piedi dentro Rocca Salimbeni, sborsando 5,4 miliardi di euro a titolo di ricapitalizzazione precauzionale. Fu, nella realtà, una nazionalizzazione, approvata persino dall’Europa, resasi necessaria per salvare ancora una volta la banca più antica del mondo, affossata, tra le altre cose, dai contratti speculativi Santorini e Alexandria.

Insomma, come stanno davvero le cose? Formiche.net ha chiesto il parere di Ignazio Angeloni, economista presso la Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce. Che pur riconoscendo il valore e l’opportunità dell’operazione, non manca di fare alcuni appunti. “Arrivati a questo punto penso sia giusto fare i complimenti all’amministratore delegato, che ha condotto in porto con determinazione un’operazione non facile, e gli auguri al Paese, che essa abbia successo nel lungo termine”.

Tuttavia, “personalmente avrei preferito un’operazione più incisiva nei costi, nel capitale e nel business plan, e con un coinvolgimento privato fin da subito anche nel risanamento. Invece la banca resta sostenuta dallo Stato, e in queste condizioni il lavoro che resta da fare sarà più difficile. In prospettiva, l’aumento dei margini di intermediazione aiuterà. Speriamo che basti”.

Pochi giorni fa, sul GiornaleNicola Porrocommentando il salvataggio di Siena, ha puntato il dito contro quello che si profila essere l’ennesimo salasso per i contribuenti. i contribuenti italiani. Che “in quattordici anni hanno fatto sei aumenti di capitale, per un totale di 25 miliardi bruciati a Siena. Peggio di Alitalia. Ma come in quest’ultimo caso, il Tesoro non ha voluto vedere la realtà. Forse era meglio accettare le proposte di Bpm e Bper di vendere loro gli sportelli (con la possibile aggiunta del Mediocredito per le filiali del centro). E il Tesoro invece di avere in mano un pugno di mosche e pagare commissioni favolose alle banche internazionali, oggi sarebbe azionista di banche sane e regionali”.

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