Serve cautela, ma la Bce prosegua contro l’inflazione. Parla l’economista Angeloni

Il Foglio – Intervista con Mariarosaria Marchesano

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Milano. Il salvataggio di Credit Suisse rischia di trascinarsi dietro un ampio contenzioso per la scelta di penalizzare gli obbligazionisti rispetto agli azionisti. Scelta contestata dalla Bce e che ha fatto tremare il mercato, un effetto collaterale impensabile.

“Bisogna ammettere che a 15 anni dal crac di Lehman Brothers, i buoni propositi sulla riforma del sistema finanziario globale sono stati disattesi”, dice al Foglio Ignazio Angeloni, economista già membro del supervisory board della Bce e professore all’Istituto universitario europeo di Firenze.

Per Angeloni, non è stato fatto abbastanza per evitare che si ripetessero crisi bancarie con rischi sistemici.

“I casi delle banche regionali americane e di Credit Suisse sono molto diversi tra loro, ma ciò che li accomuna è la paura del contagio. Non si possono escludere altri focolai di crisi, ma l’Eurozona ha tutte le risorse per farvi fronte grazie al fatto che quel programma di riforme l’ha messo in pratica”. Il fatto è che non tutte le autorità monetarie e regolatori al mondo si sono impegnate allo stesso modo per prevenire crisi finanziarie come quella del 2008, con il risultato che la lotta all’inflazione che le banche centrali “stanno giustamente conducendo”, dice Angeloni, rischia di rallentare. “La Bce è stata chiara: gli obiettivi della stabilità dei prezzi e della stabilità finanziaria devono camminare di pari passo e penso che questo sia l’approccio corretto”.

Proprio la Bce in questi giorni di tensioni sui mercati ha cercato di tracciare una linea di demarcazione tra l’Eurozona, dove regole di vigilanza più restrittive hanno reso il sistema bancario più solido e patrimonializzato, e regioni dove le maglie sono state più larghe. C’è, però, chi ritiene che una crisi di fiducia nel settore bancario possa assumere forme non contemplate dagli stress test. In altre parole, regole più severe non mettono al riparo le banche italiane ed europee da un contagio basato su fattori essenzialmente psicologici.

“Penso che la Bce abbia ben presente il problema e si muoverà con una certa cautela, non è un caso che Lagarde nell’ultima riunione del board abbia evitato di impegnarsi su futuri aumenti dei tassi. E mi sembra che i mercati abbiano recepito in modo positivo il messaggio. Poi, certo, tutto può succedere e i mercati possono rovesciarsi, ma mi pare che la situazione sia, per ora, sotto controllo”.

Esiste un legame tra gli aumenti dei tassi e le tensioni finanziarie che si stanno sviluppando?

“Credo che le banche centrali, quando dal 2008 al 2021 hanno messo in atto un’espansione monetaria senza precedenti, non abbiano valutato abbastanza i rischi che avrebbe comportato, successivamente, l’inevitabile rientro. A questo si aggiunge il fatto che in Europa c’è stato un ritardo nell’avvio della lotta all’inflazione, anche se solo di qualche mese, con la conseguenza che il rialzo successivo dei tassi è stato più brusco. Ma questa è acqua passata, ciò che importa è che la direzione intrapresa poi sia quella giusta”.

Angeloni non condivide la posizione di quanti, soprattutto in Italia, auspicano un allentamento della stretta per scongiurare la recessione. Anzi, è convinto che, con il tasso attuale di deposito al 3 per cento e l’inflazione ancora intorno al 7-8 per cento, la Bce abbia ancora passi in avanti da fare.

“I tassi reali a breve termine sono ancora negativi – osserva – il che indica che siamo ancora in una fase espansiva. Quindi, mi auguro che l’incertezza dovuta alle crisi bancarie sia momentanea e che pur con la dovuta cautela nei futuri aggiustamenti l’inflazione venga riportata al più presto sotto controllo. Piuttosto, si parla troppo poco degli effetti della politica monetaria ultra espansiva”.

L’economista ricorda un’analisi del Ceps, think tank bruxellese, secondo cui i contribuenti europei rischiano di perdere fino a 700 miliardi nei prossimi anni: questo è il costo che la Bce deve sostenere per l’acquisto del debito sovrano dai paesi dell’Unione, a tassi inferiori agli interessi pagati ora sulla liquidità depositata dagli stati. E’ una questione molto tecnica, “ma la sostanza – conclude Angeloni – è che bisogna urgentemente asciugare questa liquidità per evitare di affossare il bilancio della Bce”.

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Parla Ignazio Angeloni. L’Italia in crisi, tra Mes e scudo anti-spread

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Milano. Ieri lo scarto tra i rendimenti di Btp e bund ha toccato 222 punti dopo la votazione in Senato (ha poi chiuso a 218). Lo spread è così tornato sotto pressione con la crisi di governo innescata dal M5s: per tutta la giornata gli investitori hanno intensificato le vendite di Btp e ceduto azioni a Piazza Affari, che ha subìto uno dei peggiori cali degli ultimi mesi (-3,4 per cento) nonostante l’Ue abbia rivisto al rialzo la stima sul pil dell’Italia al 2,9 per cento nel 2022. Milano è stata la peggiore borsa europea ma, a eccezione di Francoforte che ha beneficiato dell’ok della Commissione al piano di sostegno per il settore energetico, anche le altre piazze finanziarie hanno mostrato nervi tesi. La caduta del governo Draghi e la prospettiva di elezioni anticipate rischiano di provocare uno scossone nell’Eurozona ora che la corsa dell’inflazione, il cambio di passo della politica monetaria e la guerra in Ucraina hanno creato uno scenario d’incertezza.

A farne le spese è soprattutto l’Italia perché, come spiega al Foglio l’economista Ignazio Angeloni (European University Institute), già membro del consiglio di vigilanza della Bce, “il resto dell’Europa oggi è meno legato al nostro paese di quanto fosse qualche anno fa, perché i titoli di stato stanno largamente nei portafogli delle banche italiane e della Banca d’Italia. Oltrefrontiera ci sarebbero dei contraccolpi, ma gestibili. Saremmo noi a soffrire di più”. Sui mercati, però, la domanda che si fanno tutti è se la crisi politica italiana rischia di complicare gli sforzi della Bce per evitare il rischio di frammentazione dell’area euro, considerato che manca poco al board del 21 luglio da cui si attendono notizie sullo scudo anti spread oltre che l’inizio di aumento dei tassi. “E’ certo che qualunque sia la forma del nuovo strumento Bce, esso includerà condizioni che il paese beneficiario dovrà soddisfare. Ma un governo in uscita non è nelle condizioni di garantire che quelle condizioni saranno soddisfatte”, osserva Angeloni. C’è da dire che il rischio di frammentazione, come rileva un’analisi del gruppo Moneyfarm, è stato percepito in aumento sui mercati già con Macron che ha perso la maggioranza in Francia. “L’ennesima crisi politica potrebbe rappresentare un ulteriore duro colpo per le aspettative di crescita e per la fiducia non solo nella forza dell’economia europea, ma anche nel progetto Europa”, spiega la casa d’investimento. Ma alla fine l’Europa darà una mano all’Italia? “L’Europa e la Bce hanno già dato una robusta mano all’Italia con il Next Generation Eu e con i finanziamenti della banca centrale – prosegue Angeloni –. E credo che in Europa continui a esserci una diffusa disponibilità a essere solidali, specialmente in questi tempi di pandemia e di guerra. Ma questo richiede anche che ogni paese faccia la sua parte. La crisi di governo certamente non rafforza la fiducia che questo avvenga”. Quante possibilità ci sono che il 21 luglio la Bce faccia passi in avanti concreti sullo scudo anti spread considerate le perplessità della Bundesbank? “La Bce dovrà in qualche modo dare seguito all’impegno assunto. Ma uno strumento anti-frammentazione è difficile da progettare, specialmente in una fase in cui la politica monetaria diventa meno espansiva.

Tale strumento si pone al limite del suo mandato e forse oltre. Vi è il rischio di dispute legali, sia a livello europeo sia nazionale, in Germania soprattutto. Anche all’interno della Bce, ci sono diversi dubbi. Sicuramente non è un passaggio facile per la banca centrale”. Angeloni sostiene che per l’Italia oggi sarebbe conveniente rivolgersi al Mes per ottenere una linea precauzionale. Perché? “Metterebbe il paese al riparo più di quanto possa fare il nuovo strumento della Bce, tutto da costruire ed esposto a varie difficoltà. E le condizioni per ottenere tale linea sono già rispettate dal nostro paese. Ho anche ragione di ritenere che il Mes vedrebbe con favore questa richiesta e sarebbe disposto a facilitarne l’ottenimento. A quel punto si aprirebbe la strada per gli acquisti illimitati della Bce, nel quadro dell’Omt creato da Mario Draghi. Strumento solido giuridicamente che ha dimostrato di essere efficace senza neppure essere usato. Sarebbe una decisione d’anticipo, coraggiosa, lungimirante e probabilmente risolutiva”.

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Il crollo del Monte dei Paschi e il costo a carico dei contribuenti

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Non sorprende né deve scandalizzare il fatto che una cittàstorica che ha dato e continua a dare molto alla fama dell’Italia, raccolta attorno al campanile della più bella piazza del mondo, voglia avere istituzioni e risorse per assicurare prosperità economica alla propria gente. O che le organizazioni sindacali pretendano che siano salvaguardati i lavoratori, specialmente dopo tanto impiego di denaro pubblico. Né meno sacrosanto è il fatto che una grande banca nazionale, che ha già i suoi problemi, messa alle strette dallo stato perché compri un’altra banca in perenne dissesto, dichiari di voler acquisire, semmai, solo le linee di attività che sono integrabili con le proprie. Non c’è niente di sbagliato in nessuna di queste cose. Il problema nasce dalla loro combinazione, dal cumulo di conflitti di interesse irrisolti eprocrastinazioni travestite da soluzioni che va, da trent’anni a questa parte, sotto il nome di Monte dei Paschi di Siena.

Diciamo trent’anni perché fino agli anni 90 il coacervo di una banca che ha al suo interno un istituto di beneficenza municipale poteva anche reggere. L’instabilità della lira e del debito pubblico spingevano verso l’alto i tassi di interesse, mentre i costi sulla raccolta restavano bassi. Ampi margini sull’intermediazione tradizionale fruttavano una rendita che le banche italiane usavano in vari modi più o meno produttivi. Per il Monte, si è trattato soprattutto di politiche clientelari del personale (assunzioni, promozioni) a costi insostenibili, come testimoniano i dati dell’epoca. E di credito elargito con criteri analoghi. La trasformazione in SPA (1995) non ha risolto il problema, solo perpetuato il controllo politico sulla bancaattraverso la fondazione. Il fatto che segna il fallimentodefinitivo di quel modello di affari arriva a fine anni 90 con la stabilizzazione monetaria e l’euro. Da allora, e ancor più ora con le politiche monetarie ultra-espansive e I tassi negativi, i margini si sono ristretti e le banche hanno dovuto razionalizzarsi, innovare, diversificare le fonti di reddito. La ricetta di MPS nel periodo 1999-2007 si chiama invece, con una colorita espressione inglese, “gambling for resurrection”: cercare di sopravvivere giocando d’azzardo. La banca giocacon i derivati, prima in scala minore e poi, dal 2002, alla grande, per occultare o rimandare le perdite. Intraprendeacquisizioni, anche qui in scala crescente, fino a quella esiziale di Antonveneta. Una discesa all’inferno che le autorità di vigilanza non ritennero di potere o di volere arrestare. E che non fu riconosciuta come tale neanche dall’establishment bancario, almeno a giudicare dal prestigio di cui MPS e i suoi vertici godevano in quel periodo presso quasi tutto il sistema del credito.

Già durante la crisi dell’euro appariva chiaro che le banche italiane, pur non esposte ai “titoli spazzatura” del settore immobiliare come quelle di altri paesi, avevano un problemadi prestiti deteriorati, riflesso di governi societari e processi decisionali interni spesso inadeguati. Problemi che la crisi non creava ma amplificava. E che in cima a questi problemi c’erano Montepaschi e tre-quattro altri istituti. Ma nel 2011 l’Italia aveva un problema ancora più grave: la perdita di credibilità dell’intera politica di bilancio pubblico, che portava alla caduta del governo. In quel momento le banche non sembravano un problema urgente. E d’altra parte, proprio sulle banche l’Europa nel 2012 estraeva un asso dalla manica: l’unione bancaria. Alla nuova vigilanza BCE, alla sua indipendenza e alla forza del suo mandato ci si è affidati, in quella fase, per gestire i problemi del settore bancario. Le dichiarazioni dei leader europei e della stessa banca centrale di allora non lasciano dubbi sul fatto che il risanamento bancario sarebbe stato attuato col massimo rigore, anche facendo uscire alcune banche dal mercato.

A sette anni dall’avvio della vigilanza BCE bisogna constatare che, almeno nei confronti di MPS (ma non solo), quella cura non ha funzionato, a dispetto di ncuni passi inizialiincoraggianti. La “due diligence” della BCE (2013-14)evidenziava un deficit di capitale di oltre 2 miliardi di euro. L’aspettativa di un nuovo corso della vigilanza sollecitavacambiamenti ai vertici e portava alla maxi ricapitalizzazione del 2014. I risultati operativi miglioravano e il peso dei costi sembrava tornare sotto controllo. Ma quella fase è durata poco; dopo il 2015 l’azione della vigilanza BCE si è indebolita, contro un’opposizione sempre più decisa da parte nazionale e dalle stesse autorità europee. La Commissione giudicò eccessivi I requisiti imposti dalla BCE; il Parlamento Europeo mise poi in dubbio la legittimità dell’azione contro le sofferenze e crediti deteriorati. Una legislazione europea sulle crisi bancarie inadeguata (troppo restrittiva per certi versi, e permissiva per altri) fece il resto. In quel difficile contesto, la stessa BCE esitò, e alcuni problemi restarono irrisolti.

Nel 2016, gli stress test evidenziano nuovamente una grave carenza di capitale per l’istituto senese. Era in segnale che la terapia non stava funzionando. Ed era l’occasione per affrontare il problema, lungo tre linee: separando la gestione della banca dagli interessi locali; ripulendo il bilancio con una valutazione granulare degli attivi (Asset Quality Review, o AQR); ristrutturando i processi interni per portare i costi in linea con i migliori standard. Una strategia che, se necessario anche con aiuti di stato, davrebbe portato poi all’acquisizionedella banca o di parti di essa. Purtroppo l’opposizione nazionale e la stessa legge europea non consentirono questa strategia. Si arrivò al paradosso di penalizzare i creditori privati con il meccanismo del “burden sharing” (salvo compenso), ma poi concedere una ricapitalizzazione “precauzionale” con fondi pubblici senza risanare a fondo il bilancio della banca (cioè, senza AQR). Ricetta sicura per le perdite a carico dei contribuenti che sarebbero maturate negli anni a venire. 

Al Ministro Daniele Franco, che oggi deve gestire la situazionesenza averne vissuto il pregresso né avervi personalmentecontribuito, spetta comprensione e solidarietà. Al netto di quattro anni di ritardi e di vari miliardi di perdite a carico del contribuente, la situazione oggi è largamente simile a quella del 2017: Montepaschi ha un modello di affari e una struttura deicosti non compatibili col mercato. La differenza è che ora vi è consapevolezza di questo fatto ed esiste un acquirente designato, almeno per una parte del bilancio e a certe condizioni.

L’altra differenza è che la banca è stata ripulita di una parte dei creditiinesigibili o dubbi, ceduti alla socieà pubblica AMCO con un onere per il contribuente ignoto (su questo punto, rilevante non solo per MPS, si rimanda al post-scriptum). Il Ministro verosimilmente desidera che l’operazione vada in porto, ma ancheche non sia vista dai posteri come un’altra occasione mancata o un nuovo spreco di denaro pubblico. Con questa finalità in mente, ci sono alcuni punti della sua recente “informativa” parlamentare(4 agosto) sui è utile riflettere.

Il primo è il rilievo attribuito al fatto che il marchio MPS possiedevalore commerciale (non solo storico) da preservare e valorizzarecome “parte del mondo finanziario del futuro”.  A giudicare daitentativi non riusciti di trovare un acquirente negli anni passati,non sembra che questo giudizio sia confermato dal mercato, né sembrerebbe saggio che il governo ne fosse condizionato mentrefa le prossime scelte. Ci sono vari modi in cui il marchio MPS può essere preservato e valorizzato in campi diversi da quellobancario, con beneficio della collettività locale e senza gravaresulla componente bancaria che, se tutto va bene, sarà trasferita a Unicredit. Non è necessario ricordare al Ministro che stessaUnicredit fa parte del “mondo finanziario del futuro” di cui egli, quale garante della stabilità finanziaria, è responsabile. 

Il secondo punto è l’accento sulla finalità di sostenere il territorio e il tessuto sociale di Siena e della Toscana. Non perché questa finalità non sia importante: lo è. Ma il modo in cui essa è presentata, in stretto raccordo con la valorizzazione “commerciale” del marchio, lascia intendere che preservare il modello commerciale preesistente sia il modo migliore di fornire quel sostegno. Al contrario, in modo migliore è quello di integrare al meglio le linee di attività della banca senese con quelle dell’acquirente, che ha già una lunga esperienza nell’integrare soggetti bancari più piccoli.

Altro punto delicato è la condizione, enunciata da Unicredit nelle sue comunicazioni, che l’operazione realizzi entro un biennio un aumento del rendimento per azione, una volta tenuto conto delle sinergie derivanti dalla fusione. Un’indicazione tecnica solo apparentemente innocua. La vigilanza BCE dovrà approvare l’operazione, e con essa il punto più delicato, i requisiti di capitale della nuova entità. Essi dipenderanno in parte proprio dalle “sinergie” dell’operazione, ovvero dalla stima di quanto la combinazione delle diverse entità determina il rischio complessivo del nuovo soggetto bancario. Unicredit è già oggi una banca globalmente sistemica, e aumenterà significativamente di dimensione in un mercato ristretto e non facile come quello italiano. La valutazione delle sinergie, sempre difficile, sarà cruciale in questo caso. La vigilanza BCE potrebbe trovarsi nella difficile posizione di “ago della bilancia”, decidendo di fatto l’esito dell’operazione bilanciando le pressioni in campo con i propri fini istituzionali a guardia della stabilità del sistema. 

Post Scriptum. Si è tralasciato ogni riferimento ai costi per il contribuente. Il Ministro ha osservato giustamente che ogni valutazione seria è prematura. Fra i calcoli meno seri che è possibile abbozzare sui dati pubblicamente disponibili, nessuno va sotto i 10 miliardi. Fra gli elementi aleatori vi è il risultato ottenibile dalla gestione dei crediti deteriorati che verranno trasferiti d AMCO (oltre a quelli, sempre di MPS, già trasferiti). A titolo di cronaca vale la pena ricordare il precedente dei crediti delle due banche venete acquisite da Banca Intesa, trasferiti alla SGA – la società precedente ad AMCO. Il disegno di legge del 2017, recante disposizioni per la liquidazione delle due banche, contiene stime dei valori di realizzo di quei crediti pari al 64 per cento dopo 4 anni, e al 100 per cento dopo 20 anni. Banca d’Italia, nel richiamare queste stime nel commento pubblicato allora sul proprio sito, pone l’accento sull’”approccio prudente” che avrebbe consentito a SGA di ottenere buoni realizzi, rispetto alle valutazioni troppo basse del mercato. Dopo 4 anni, l’ultimo rapporto annuale di AMCO porta ancora quei crediti a bilancio (più altri sempre delle banche venete che Intesa ha deciso di cedere successivamente in esecuzione degli accordi), attribuendovi un valore attuale del al 27 per cento del nominale. Tale può essere la differenza fra stime iniziali poco prudenti e la realtà dei fatti. Speriamo che quell’esempio non si ripeta.

Variante ed eventuali – Il whatever it takes che manca per risolvere il dramma Covid

Il Foglio

Possiamo considerare il Covid-19 I un problema risolto? La domanda può sembrare assurda in un paese che ha appena confermato e per certi versi accentuato le restrizioni, e in un continente in cui i governi chiudono ancora certe frontiere. Ma è invece del tutto ragionevole se si guardano i dati internazionali su contagi e vaccinazioni. I paesi che hanno accelerato l’approvvigionamento e la diffusione dei vaccini, passando rapidamente alla monodose, abbattono i contagi al di là delle aspettative. Il caso macroscopico è Israele, che ha vaccinato già oltre il 90 per cento della popolazione e ora regala i vaccini che restano ad alcuni paesi poveri. Ma anche gli Stati Uniti si avviano nella stessa direzione. L’amministrazione Biden ha impresso una sterzata, pur senza abbandonare il concetto trumpiano di “America First”, offrendo condizioni attraenti alle compagnie farmaceutiche in cambio di approvvigionamenti rapidi e rendendo quindi conveniente alle compagnie indirizzare la produzione verso gli USA. Ha anche potenziato la logistica per velocizzare l’inoculazione. L’approvazione recente del vaccino monodose Johnson & Johnson accentuerà ulteriormente un processo che ha già portato il paese a una percentuale di vaccinati del 25 per cento (ricordiamo che la percentuale minima per l’immunità di gregge è attorno al 65 per cento). Anche Regno Unito post-Brexit sta dando una buona prova, con oltre il 30 per cento di vaccinati. Non è affatto escluso, anzi è probabile, che questi paesi e altri sulla stessa scia potranno, una volta arrivata la bella stagione e portata avanti ulteriormente la strategia, voltare pagina definitivamente.

Il tratto comune di questi paesi sta nell’aver messo in campo tutte le risorse necessarie, finanziarie e logistiche. Whatever it takes, verrebbe da dire. E ne vale la pena. Clemens Fuerst e Daniel Gros mostrano in un recente articolo che il prezzo per dose necessario per indurre le imprese farmaceutiche ad accelerare la produzione è trascurabile rispetto al vantaggio, anche solo economico, di mettere ogni persona in più al riparo del virus. Non conviene quindi negoziare oltre un certo limite sui margini di prezzo, o entrare in conflitto con le imprese contestando presunte inadempienze. Meglio modificare le condizioni offerte rendendole non solo più favorevoli, ma soprattutto premianti in caso di consegna anticipata. Purtroppo, questa non è finora la strategia dell’Unione Europea. L’UE non pubblica i contratti stipulati, ma dall’unico disponibile al pubblico, quello con AstraZeneca, si desume leggendo fra gli “omissis” che la Commissione impone alla compagnia condizioni di profitto zero. Perché mai una impresa privata che ha fatto ricerca e investimenti riuscendo a produrre un nuovo farmaco a tempo di record non dovrebbe trarne un ragionevole profitto? Nel frattempo, il tasso di vaccinazione nell’Unione, secondo gli ultimi dati, si ferma al 7 per cento. In termini un pò semplificati, la risposta alla domanda iniziale è dunque questa: il problema Covid, comprese tutte le varianti oggi note ed escludendo evoluzioni negative oggi non previste, è da considerarsi risolto o in via di soluzione in quei paesi che hanno saputo gestirlo. Non per gli altri. Fra questi, purtroppo, ci siamo noi.

Vale allora la pena cominciare a fare qualche prima riflessione su come può essere l’uscita dal virus, per quanto riguarda l’economia globale. Ci sarà una ripresa, questo è chiaro, ma quanto forte? Come distribuita, e con quali caratteristiche?

Purtroppo (anzi, per fortuna) non esistono precedenti storici recenti e paragonabili di pandemie di questa portata a cui rifarsi per un confronto. La Grande Influenza (1918-1920), che fece un numero di morti ben maggiore, ebbe conseguenze che si sovrapposero a quelle dell’uscita dalla prima guerra mondiale. Sugli sviluppi di quel tormentato periodo influirono anche eventi eccezionali – rivoluzioni, guerre civili e l’impatto economico nefasto del trattato di pace. Per certi versi più utile può essere riferirsi alla fase successiva alla seconda guerra mondiale. Pur nella diversa natura e proporzione dei due eventi, il confronto offre qualche spunto perché durante la seconda guerra mondiale l’economia dei principali paesi subì l’effetto congiunto di tre fattori – l’aumento forzoso del risparmio; la riconversione produttiva; l’aumento dell’intervento pubblico – che si ritrovano in qualche misura anche nell’esperienza Covid. A partire dalla seconda metà degli anni quaranta, mentre l’Europa iniziava lentamente la sua ricostruzione, l’economia americana smentendo le previsioni degli economisti che prevedevano recessione iniziava una fase ininterrotta di crescita durata un quindicennio. Il motore principale di quel miracolo economico fu la ripresa della propensione alla spesa delle famiglie, che fu talmente forte da compensare più che interamente la riduzione delle commesse militari. La domanda aggregata favorì la rapida riconversione dall’economia dalla struttura di guerra a quella di pace.

Alcune di quelle circostanze potrebbero ripresentarsi oggi. Un recente studio della BCE documenta il forte aumento della propensione al risparmio individuale nel 2020, oltre 5 punti percentuali rispetto al reddito disponibile delle famiglie. Si tratta di risparmio precauzionale o forzoso: spese cancellate o rimandate o a causa dell’incertezza o per l’impossibilità di spendere. L’aumento del tasso di risparmio si è sommato alla riduzione del reddito disponibile, pari a circa un altro 5 per cento. È da attendersi un rimbalzo equivalente nell’uscita dal virus, forse anche superiore, se una parte delle spese è stata solo rimandata.

La crisi ha anche causato o accelerato la riconversione produttiva verso settori ad alta intensità tecnologica sfavorendo, temporaneamente, alcune categorie di servizi come turismo, trasporti e ristorazione. Non appare irragionevole ipotizzare uno scenario in cui alla ripresa della spesa delle famiglie si combinerebbe un ritorno della domanda in questi settori penalizzati, mentre altri che hanno guadagnato nella crisi (telecomunicazioni, grande distribuzione online, biotecnologie, ecc.) non perderebbero il vantaggio acquisito ma anzi continuerebbero a progredire. A questo si aggiungerebbe l’intervento pubblico, ormai indirizzato strategicamente, soprattutto in Europa, verso la realizzazione di investimenti pubblici infrastrutturali e il potenziamento della sanità, dell’istruzione e della riconversione energetica e ambientale.

Uno scenario virtuoso possibile, ma che per ora può essere descritto solo con verbi al condizionale. Quello che è certo è che la ripresa sarà ineguale, proprio in relazione alle diverse strategie sanitarie descritte in precedenza. I divari già si vedono, con i paesi emergenti dell’Asia già lanciati e che hanno recuperato i livello pre-crisi, gli Stati Uniti che proprio in queste settimane continuano a sorprendere con dati positivi, e l’Europa (con l’Italia vicino alla coda) ancora nelle secche della recessione. Nel vecchio continente è urgente una sferzata per ridurre i divari e intensificare gli sforzi sul duplice fronte della strategia sanitaria e del rilancio economico. Proprio quella che, a quanto è dato sapere, il presidente Draghi ha cercato di imprimere la settimana scorsa nella riunione del Consiglio Europeo.

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La proposta del presidente del Parlamento europeo David Sassoli di annullare i debiti contratti dai governi europei per far fronte alla crisi sanitaria ha suscitato un acceso dibattito in Italia – quasi solo in Italia, per la verità – con reazioni soprattutto negative. Alcuni hanno opposto la critica più semplice, o forse semplicistica: la Bce, titolare di gran parte di quei debiti, non può annullarli perché il Trattato europeo lo proibisce. La critica è semplicistica perché in tempi straordinari come questo avviene anche che si ipotizzino soluzioni straordinarie, improponibili in circostanze normali. E’ già successo: succederà ancora. Altri hanno notato che cancellare i debiti con la Bce non giova: è una partita di giro, perché le banche centrali restituiscono sempre ai governi gli interessi che incassano dai governi stessi. Vero anche questo, ma poco rilevante: esiste comunque una larga fetta di titoli sul mercato, che aumenterà quando la Bce smetterà di acquistarli e dovrà anzi cederne una parte. Infine, alcuni hanno ritenuto la proposta inopportuna perché fatta da un italiano, fonte poco credibile per l’elevato debito pubblico del paese. In effetti non sarebbe la prima volta che dal Parlamento europeo provengono proposte che sotto mentite spoglie europee sembrano fatte apposta per favorire un determinato paese. Ma anche qui: e allora? Serietà impone di valutare ogni suggerimento, specialmente se autorevole, nel suo merito e non per la fonte da cui proviene. I (pochi) sostenitori della proposta citano ricerche economiche che mostrano che l’annullamento dei debiti ha portato in passato a migliori condizioni economiche nei paesi interessati. Uno studio di C. Reinhart e C. Trebesch ha trovato che la cancellazione dei debiti dei paesi emergenti negli anni 80 e 90 ha aumentato la crescita dei paesi stessi. Purtroppo il paragone non vale. Quei paesi avevano contratto debito nei confronti di banche private a tassi di interesse elevati e crescenti, non nei confronti di banche centrali a tassi zero. Quegli stessi autori mostrano che il miglioramento delle economie fu dovuto all’abbattimento dell’onere per il servizio del debito, non all’abbattimento del debito in quanto tale. Oggi, l’onere dei debiti Covid in Europa è pari a zero. A ben vedere, la proposta è inopportuna soprattutto per la sua intempestività: propone di cancellare debiti che non solo in larga parte non sono stati ancora contratti, ma la cui concessione è oggetto di una trattativa ancora in corso. Un po’ come se un’impresa che tratta la concessione di un mutuo per investimento, invece di valutare la convenienza economica dell’operazione in relazione al debito assunto, proponesse a priori di annullarlo per migliorare le proprie prospettive reddituali. E’ facile immaginare come finirebbe la trattativa. Qui sta il problema, ricorrente in Italia. L’attenzione si concentra sempre e solo sul lato finanziario: come ottenere i soldi, ovvero, in questo caso, come non restituirli. L’Italia, cui l’Europa ha chiesto di presentare piani di investimento per usufruire delle risorse da essa offerte a condizioni favorevoli, non ha dato la sensazione di prendere sul serio questa offerta. Non esiste né una lista di progetti concreti, né un’analisi che valuti se i risultati attesi siano tali da giustificarne la realizzazione, né certezza su quale sia la governance adeguata a questo impegno di portata storica. Invece è da lì che bisogna partire: come usare i denari ricevuti, non da come ottenerne di più e possibilmente a fondo perduto. Una volta che quei piani di investimento fossero stati avviati con successo si potrebbe discutere di come gestirne l’onere finanziario, se giudicato eccessivo. Ma risorse gratis senza strategia portano allo spreco. Non esiste nessuna argomentazione “keynesiana” a favore dello spreco; Keynes ha invece sostenuto che i ritorni dell’investimento pubblico devono commisurarsi all’onere del debito assunto. Pensandoci bene, è per questo che quel dibattito avviene soltanto in Italia; gli altri paesi spendono più utilmente il loro tempo preparandosi a utilizzare al meglio quei fondi.

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