Troppi ripensamenti e poco equilibrio nelle parole della Bce

Il Sole 24 Ore

La recente decisione della Bce – aumento dei tassi dello 0,50% e riduzione graduale del portafoglio titoli a partire da marzo – ha suscitato reazioni di sorpresa e allarme in Italia. “I falchi prevalgono sulle colombe”, e altri commenti dello stesso prevedibile tenore. In realtà essa è meno sorprendente e preoccupante di quanto sia apparso. Niente panico dunque, solo un sano richiamo alla realtà.

A chi aveva occhi per vedere era chiaro almeno da un anno che un’inflazione partita con una forte impennata dei prezzi di energia e cibo, le due sole cose che nessuno può fare a meno di consumare ogni giorno, non poteva arrestarsi rapidamente. Che al movimento iniziale sarebbero seguiti aumenti di tutti gli altri prezzi e anche dei salari; a meno che non si pensasse, in un contesto di disuguaglianze crescenti, di ridurre alla fame chi vive di paghe e pensioni basse e dipende più di altri da quei due beni per andare avanti. E anche che vi sarebbe stata poi qualche rincorsa fra prezzi e salari, in parte inevitabile ma controllabile con una politica monetaria orientata in senso più restrittivo. Tutte le analisi ci dicono che l’inflazione in Europa è persistente: quando parte fa fatica a fermarsi, per ragioni legate alla natura dei mercati dei beni e del lavoro. Giovedì scorso la BCE ne ha preso atto, portando le previsioni di inflazione al 6,3% nel 2023, al 3,4% nel 2024 e al 2,3% nel 2025. Un semplice calcolo mostra che se l’inflazione in ogni mese, finora 0,8% in media quest’anno, si dimezza l’anno prossimo scendendo allo 0,3-0,4% e poi cala ancora fino all’1-2% nel 2025 – andamento ragionevole escludendo altre impennate delle materie prime – si ottengono proprio quei valori nella media dei prossimi anni. Forse la BCE stavolta ha fatto proprio quel calcolo invece di affidarsi a modelli previsivi più sofisticati.

Con questi dati il fatto che la banca centrale abbia aumentato i tassi dello 0,5% portandoli fra il 2 e il 2,75 per cento non deve stupire. I mercati finanziari infatti si attendevano esattamente questo. Le tre banche centrali con cui ci confrontiamo, la Fed, la Banca d’Inghilterra e la Banca Nazionale Svizzera, hanno preso la settimana scorsa esattamente la stessa decisione. Coincidenza senza precedenti che dimostra che si trattava di una decisione naturale in un contesto in cui l’inflazione, e in particulare questa inflazione, ha origine e tratti comuni a livello internazionale.

Perché allora mercati e commentatori, spaventandosi a vicenda, hanno reagito così male, con aumenti improvvisi degli spread e caduta delle borse (quelle europee, peraltro, scese del 3% dopo una salita di oltre il 20% nei mesi precedenti)?

In parte, credo, per il modo poco felice in cui quella decisione è stata spiegata giovedì scorso. Nel comunicato diffuso online prima della conferenza stampa non si usa neppure una parola per spiegare la decisione presa. Non si dice nulla del perché si sia deciso di rallentare la salita dallo 0,75 deciso in precedenza allo 0,50% — spiegazione che avrebbe portato a un messaggio complessivo più equilibrato. Tutto il resto del lungo ed enfatico paragrafo iniziale è dedicato a quello che la banca centrale farà nei prossimi mesi in termini di ulteriori restrizioni. Con due parole chiave: “steady” (costanti), che suggerisce aumenti simili in futuro; e “keeping” (mantenendo), che suggerisce che una volta portati in alto, i tassi vi saranno mantenuti a lungo.

Rispondendo ai giornalisti la Presidente ha poi rincarato la dose dichiarando che “steady” significava proprio 0,50 per cento. Gli aumenti futuri saranno proprio di quell’entità. Contraddicendo quanto detto tante volte, cioè che si sarebbe deciso di volta in volta guardando ai dati, ha invece detto in modo straordinariamente preciso ciò che farà in futuro. Il contenuto effettivo della delibera è stato così presentato in modo eccessivamente restrittivo. Credo e spero che vi siano opportunità future per ricalibrare il messaggio, evitando peraltro la cacofonia di opinioni diverse cui si è assistito in passato.

A me personalmente preoccupa un’altra indicazione, passata invece sotto silenzio. Prima fra le istituzioni europee, la BCE ha esteso la previsione al 2025, ben oltre il rallentamento congiunturale in corso. La crescita dell’eurozona viene stimata all’1,9% nel 2024 e all’’1,8% nel 2025: in media, la stessa degli anni pre-pandemici. La BCE vuole forse dirci che fino ad allora il programma Next Generation EU, che finisce nel 2027, non avrà alcun effetto? Speriamo di no.

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